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Breve commento: L’importanza dell’elemento oggettivo nel reato di cui all’art. 11 D. Lgs 74/2000

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 settembre – 3 novembre 2020, n. 30615

La sentenza segnalata accentua, finanche in maniera eccessiva, l’importanza dell’elemento oggettivo nel reato di cui all’art. 11 D. lgs 74/2000 (Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte).

Nel caso in esame l’imputato, avendo ricevuto un rimborso da parte della Agenzia per un ammontare di 206.730,62 euro tramite accredito diretto su conto corrente, a distanza qualche giorno aveva effettuato bonifico in favore della coniuge per somma pari ad euro 200.000,00 pur in presenza di somme iscritte a ruolo pari ad euro 383.199,69.

A seguito della contestazione della ipotesi di reato di cui all’art. 11 D. Lgs. 74/2000, l’imputato era stato condannato nei due gradi di giudizio di merito, pur avendo sostenuto la carenza di elemento soggettivo nella commissione del reato sulla base della inesistenza dell’avvio di procedure esecutive nei propri confronti, dell’avvenuto rimborso di somme da parte della stessa Agenzia – sul presupposto dell’art. 48 bis D.P.R. 602/1973 il quale impedisce il pagamento da parte dell’Ente in presenza di corrispondenti debiti da parte del contribuente -, della esistenza di ulteriori crediti da parte dello stesso contribuente nei confronti dell’Erario.

La Corte, con la pronuncia in esame, ha confermato l’orientamento estremamente rigoroso seguito ad altre pronunce sul tema, negando per un verso l’irrilevanza dell’avvio di procedura esecutiva da parte dell’Erario e, dall’altro, risaltando l’elemento oggettivo del reato a scapito di quello soggettivo.

Sotto il primo profilo, la Corte richiama precedenti orientamenti giurisprudenziali che sottolineano l’importanza della garanzia generica cui sono sottoposti i beni del contribuente (tale per cui diventa irrilevante il successivo ristoro delle somme inizialmente sottratte alla predetta garanzia), mentre, relativamente al secondo aspetto, rileva come “la fraudolenza deve qualificare l’atto sul piano oggettivo, senza che sia necessario attingere a fatti o comportamenti ad esso estrinseci per escluderne la natura. Inoltre, poiché la fraudolenza qualifica l’atto sul piano oggettivo, essa preesiste al dolo specifico dell’azione e non ne può essere contaminato a fini qualificatori; il fine di sottrazione qualifica il dolo specifico non la natura fraudolenta dell’atto mediante il quale l’agente persegue lo scopo, sicché non è corretto qualificare la natura fraudolenta dell’atto in considerazione (e a causa) dello scopo perseguito dal suo autore. I piani devono rimanere distinti se si vuole evitare che il disvalore dall’azione si tramuti in disvalore della volontà e, sopratutto, se si vuole evitare l’allargamento della fattispecie a condotte non tipiche.”

Tale considerazione aggiunge un quid pluris che appare in aperto contrasto non solo con precedenti giurisprudenziali sul tema ( “il reato previsto dall’art. 11 D.Lgs. 74 del 2000 è caratterizzato dal dolo specifico, che ricorre quando l’alienazione simulata o il compimento di altri atti fraudolenti, idonei a rendere inefficace la procedura di riscossione coattiva, siano finalizzati alla sottrazione “al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrativi relativi a dette imposte” (Sez. 3, n. 27143 del 22/04/2015, Noviello, Rv. 264187)“, ma anche dalla ratio della norma, ed apre conseguentemente ad una serie di interrogativi specialmente nei casi in cui la condotta non sia connotata da intenti chiaramente fraudolenti.

Dire, a parere di chi scrive, che l’elemento oggettivo relativo alla fraudolenza dell’atto “preesiste” al dolo specifico dell’azione al punto che non ne può essere “contaminato”, implica una svalutazione dell’elemento soggettivo tale da pregiudicare in termini concreti l’esercizio della difesa attraverso l’irrilevanza di possibili elementi probatori, dimostrativi della assenza di dolo finalizzato a sottrarre  denari alla (possibile ma non ancora iniziata) azione esecutiva.

In particolare, anche accedendo alla tesi della suprema Corte secondo la quale i beni del contribuente, a seguito della iscrizione a ruolo delle somme, fungono da garanzia generica rispetto alle pretese dell’Erario, resterebbe da valutare in termini puntuali se l’atto di disposizione da parte del primo abbia in concreto leso tale garanzia e se quindi, pur inquadrando l’ipotesi di cui all’art. 11 D. Lgs 74/2000 quale reato di pericolo, si sia verificato in concreto un impatto negativo sulla efficacia della riscossione coattiva del credito vantato.

Al contrario, la Corte giudica preponderante ritenere che “nel caso di specie l’azione del ricorrente è stata, posta in essere nella piena ed incontestata consapevolezza dell’esistenza di un ingente debito tributario risalente ad anni prima. Sicché, come correttamente affermato dalla Corte di appello, egli non può giovarsi dell’errore evidentemente compiuto dall’Agenzia del Demanio; se così fosse, del resto, il ricorrente avrebbe dovuto spiegare (e non lo ha mai fatto, nemmeno in questa sede) le ragioni della accensione del conto intestato alla moglie subito dopo l’accredito della somma e del trasferimento a favore di quest’ultima di una somma così ingente”. 

Si potrebbe forse obiettare, sotto questo profilo, che la consistenza del credito vantabile dall’Erario avrebbe dovuto essere valutata in riferimento alla sussistenza di controcrediti, aspetto questo non adeguatamente soppesato in sentenza non solo in riferimento all’elemento soggettivo del reato, ma anche sotto il profilo oggettivo:  la garanzia cui sono sottoposti i beni del contribuente non può essere generica a tal punto da paralizzarne ogni possibile iniziativa economica, ma solo quella tesa a pregiudicare l’effettiva riscossione del dovuto.

Tale ragionamento appare preliminare rispetto alla censura operata dalla Corte in riferimento alla omessa spiegazione, da parte dell’imputato, dei motivi economici sottesi al trasferimento delle somme in favore della di lui moglie, censura che costituisce conseguentemente una ingiustificata pretesa di inversione probatoria.

 

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 settembre – 3 novembre 2020, n. 30615
Presidente Izzo – Relatore Aceto

Ritenuto in fatto

1. Il sig. M.G. ricorre per l’annullamento della sentenza del 19/06/2019 della Corte di appello di Palermo che, rigettando la sua impugnazione, ha confermato la condanna alla pena (principale) di un anno di reclusione (oltre pene accessorie) per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, a lui imputato perché, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte e contributi previdenziali dell’ammontare complessivo di Euro 383.199,69, aveva alienato la somma di Euro 200.000,00 in favore del coniuge, A.C. , mediante bonifico bancario disposto il 25/03/2013 così da rendere in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.
1.1.Con unico motivo deduce, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, nonché del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 48-bis.
Il 20/03/2013, afferma, l’Agenzia delle Entrate aveva accreditato sul suo conto corrente la complessiva somma di Euro 206.730,62; il 25/03/2013 aveva accreditato sul conto corrente della moglie la somma di Euro 200.000,00, trasferita, mediante bonifico bancario, dal proprio conto. Il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 48-bis, impedisce all’Agenzia delle Entrate di pagare somme superiori a Euro 10.000,00 se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare superiore a detto importo. Il pagamento di una somma superiore di venti volte il limite di legge ha determinato in lui il legittimo affidamento della assenza di pendenze superiori al detto limite; a ciò si aggiunga, prosegue, che dal compendio probatorio è emerso che egli vantava un credito cospicuo nei confronti dell’Erario e che nessuna procedura di accertamento o riscossione di debiti erariali era stata avviata nei suoi confronti. Altrimenti ragionando si arriverebbe all’inaccettabile conclusione che qualsiasi trasferimento di somme o spesa da parte della persona ignara di pendenze erariali a suo carico potrebbe essere inteso quale atto fraudolento; nel caso di specie, tra l’altro, egli di certo non avrebbe girato le somme alla moglie se avesse voluto frodare il fisco.

Considerato in diritto

2. Il ricorso è inammissibile perché generico e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
3.Dalla lettura della sentenza impugnata (e da quella di primo grado), risulta, in fatto, che:
3.1.nel 2013 il M. era esposto nei confronti dell’Erario per l’importo complessivo di Euro 383.000,00 a seguito di imposte dirette e indirette non pagate (e relativi interessi) iscritte a ruolo negli anni 2002-2011;
3.2.egli era titolare di un rapporto di conto corrente acceso (omissis) e privo di disponibilità liquide fino al 3 marzo 2013; il 4 marzo 2013 vi aveva effettuato in versamento di 100,0 Euro;
3.3.il 20 marzo 2013, a seguito di un accordo transattivo del precedente 26 gennaio, l’Agenzia del Demanio vi aveva accreditato la somma di Euro 206.000,00;
3.4.il (omissis) era stato acceso, presso lo stesso istituto di credito, un rapporto di conto corrente intestato alla moglie del M. ;
3.5. Il 25 marzo 2013 il ricorrente, senza alcuna apparente giustificazione, aveva girato 200.000,00 Euro dal proprio conto a quello della moglie;
3.6.nei periodi successivi da detto conto sarebbero stati effettuati solo prelievi.
3.7.Tali circostanze non sono oggetto di contestazione e smentiscono il presupposto, giuridicamente irrilevante, della assenza di procedure volte all’accertamento o alla riscossione del debito erariale e del fine di frodare il Fisco.
4.L’intero D.Lgs. n. 74 del 2000 codifica condotte ciascuna potenzialmente idonea a ledere, da angolazioni diverse, il medesimo ed unico bene giuridico, individuato, come detto, nel dovere di concorrere alle spese pubbliche (e di garantire, conseguentemente, il flusso di beni necessario a farvi fronte). A tal fine il legislatore penale ha selezionato (e presidiato) le fasi dell’obbligazione tributaria, dalla genesi alla sua riscossione, fasi ritenute essenziali al corretto adempimento dell’obbligazione stessa ed individuate nell’obbligo (strumentale) di dichiarare fedelmente i fatti costitutivi dell’obbligazione e il suo oggetto, nell’obbligo di adempiere all’obbligazione tributaria nei tempi e modi previsti, nella necessità (strumentale) di documentare fedelmente le operazioni fiscalmente rilevanti che incidono sull’an e sul quantum dell’obbligazione tributaria e nel dovere di conservare tale documentazione, nella necessità di preservare la riscossione del credito erariale da attività volte a depauperare in modo fraudolento la garanzia costituita dal patrimonio del debitore. Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, comma 1, si ascrive a quest’ultima fase della vita dell’obbligazione tributaria. Attraverso l’incriminazione della condotta da esso prevista il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell’Erario (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251077, secondo cui l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori).
4.1.L’antecedente storico immediato e diretto della norma in questione è costituito dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 97 che, come sostituito dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 15, così recitava: “Il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie dovuti, ha compiuto, dopo che sono iniziati accessi, ispezioni e verifiche o sono stati notificati gli inviti e le richieste previsti dalle singole leggi di imposta ovvero sono stati notificati atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, atti fraudolenti sui propri o su altrui beni che hanno reso in tutto o in parte inefficace la relativa esecuzione esattoriale, è punito con la reclusione fino a tre anni.
La disposizione non si applica se l’ammontare delle somme non corrisposte non è superiore a lire 10 milioni”.
4.2.Le diversità strutturali delle fattispecie, sin da subito segnalate da questa Corte (Sez. 3, n. 17071 del 04/04/2006, De Nicolo, Rv. 234322), sono evidenti: scompare, in quella nuova, ogni riferimento alla necessità dell’effettivo avvio di un qualsiasi accertamento fiscale e non è più conseguentemente richiesto che l’azione abbia effettivamente compromesso l’esecuzione esattoriale: è sufficiente che sia idonea a renderla inefficace (sulla conseguente natura di reato di pericolo concreto la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata; cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648, che ha affermato che il delitto in questione è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare secondo un giudizio “ex ante” – l’attività recuperatoria della amministrazione finanziaria; nonché, Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771, con richiami ai numerosi precedenti conformi); fa ingresso, nella fattispecie, la condotta di “alienazione simulata”, che costituisce modalità alternativa al compimento di atti fraudolenti sui propri o altrui beni.
4.3.Per il concetto di “alienazione simulata” non è necessario ricorrere all’armamentario definitorio previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. g-bis, introdotto successivamente all’art. 11, stesso decreto. È sufficiente attingere alle comuni definizioni civilistiche, preesistenti alla norma in questione, secondo le quali la simulazione è finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quellà reale. Sicché, l’alienazione è simulata quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa) alla effettiva volontà dei contraenti. V’è piuttosto da dire che nell’ambito della alienazione simulata rientra anche quella a titolo gratuito, non ponendo la norma limiti definitori al titolo (oneroso o meno) della “alienazione” e non essendovi motivo alcuno per escludere la donazione dall’ambito di applicabilità della norma. In ossequio al principio di stretta legalità e tassatività della fattispecie penale, deve però trattarsi di alienazione “simulata”.
4.4.Ove, come nel caso di specie, il trasferimento sia effettivo, la relativa condotta non può essere considerata alla stregua di un atto simulato ma deve essere valutata esclusivamente quale possibile atto fraudolento, dovendosi intendere per tale l’atto idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero e a mettere a repentaglio o comunque ostacolare l’azione di recupero del bene da parte dell’Erario (Sez. 3, n. 3011 del 05/07/2016, Rv. 268798). Come spiegato in motivazione, “in conformità alla “ratio” della norma, per “atto fraudolento” deve intendersi qualsiasi atto che, non diversamente dalla alienazione simulata, sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero, mettendo a repentaglio o comunque rendendo più difficoltosa l’azione di recupero del bene in tal modo sottratto alle ragioni dell’Erario. Si è così affermato che integra la condotta, rilevante come sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte dovute da società, la messa in atto, da parte degli amministratori, di più operazioni di cessioni di aziende e di scissioni societarie simulate finalizzate a conferire ai nuovi soggetti societari immobili, dal momento che nella fattispecie criminosa indicata rientra qualsiasi stratagemma artificioso del contribuente tendente a sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del debito tributario (Sez. 3, n. 19595 del 09/02/2011, Vichi, Rv. 250471), la costituzione di un fondo patrimoniale (Sez. 3, n. 5824 del 18/12/2007, Soldera, Rv. 238821; si veda però Sez. 3, n. 9154 del 2015, infra), la vendita simulata mediante stipula di un apparente contratto di “sale and lease back” (Sez. 3, n. 14720 del 06/03/2008, Ghiglia, Rv. 239972); ma anche la costituzione fittizia di servitù, di diritti reali di godimento, la concessione di locazione, la ricognizione di debito, insomma ogni atto di disposizione del patrimonio che abbia la sua causa nel pregiudizio alle ragioni creditorie dell’Erario”.
4.5.La fraudolenza deve qualificare l’atto sul piano oggettivo, senza che sia necessario attingere a fatti o comportamenti ad esso estrinseci per escluderne la natura. Inoltre, poiché la fraudolenza qualifica l’atto sul piano oggettivo, essa preesiste al dolo specifico dell’azione e non ne può essere contaminato a fini qualificatori; il fine di sottrazione qualifica il dolo specifico non la natura fraudolenta dell’atto mediante il quale l’agente persegue lo scopo, sicché non è corretto qualificare la natura fraudolenta dell’atto in considerazione (e a causa) dello scopo perseguito dal suo autore. I piani devono rimanere distinti se si vuole evitare che il disvalore dall’azione si tramuti in disvalore della volontà e, sopratutto, se si vuole evitare l’allargamento della fattispecie a condotte non tipiche.
4.6.È piuttosto importante precisare (e ribadire) in questa sede che oggetto di immediata tutela dell’incriminazione della condotta non è il patrimonio in sé del contribuente, che costituisce garanzia (generica) del debito erariale contratto (art. 2740 c.c.), quanto, piuttosto, la necessità di preservare la riscossione del credito erariale da qualsiasi attività volta a depauperare in modo fraudolento tale garanzia così da ostacolare l’attività di riscossione coattiva del credito. L’interpretazione della norma non dà adito a dubbi posto che la natura simulata ovvero fraudolenta, rispettivamente della vendita o dell’atto, qualifica l’azione sotto il profilo della sua offensività. Occorre, cioè, che per effetto della condotta si determini una situazione tale per la quale il bene simulatamente alienato o in relazione al quale sono stati compiuti atti fraudolenti appaia all’Erario effettivamente uscito dal patrimonio del debitore sì da renderne impossibile o comunque più difficile il recupero. Non rilevano, dunque, i fisiologici atti di disposizione del proprio patrimonio che il contribuente può liberamente compiere (si veda, sul punto, Sez. 3, n. 25677 del 2012, citata dai ricorrenti e di cui oltre si dirà); rileva la disposizione fraudolenta, quella cioè oggettivamente idonea a ingannare il terzo sulla reale consistenza del patrimonio stesso.
5.Orbene, nel caso di specie l’azione del ricorrente è stata, posta in essere nella piena ed incontestata consapevolezza dell’esistenza di un ingente debito tributario risalente ad anni prima. Sicché, come correttamente affermato dalla Corte di appello, egli non può giovarsi dell’errore evidentemente compiuto dall’Agenzia del Demanio; se così fosse, del resto, il ricorrente avrebbe dovuto spiegare (e non lo ha mai fatto, nemmeno in questa sede) le ragioni della accensione del conto intestato alla moglie subito dopo l’accredito della somma e del trasferimento a favore di quest’ultima di una somma così ingente.
5.1.In disparte queste considerazioni, però, il ricorrente non deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata ma solo il malgoverno sostanziale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 48-bis, senza alcuna spiegazione delle ragioni per le quali la norma suddetta sia stata erroneamente interpretata o violata dalla Corte di appello e con quale effetto sulla corretta applicazione del D. Lgs. n. 74 del 2000, art. 11.
6.Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

; il 25/03/2013 aveva accreditato sul conto corrente della moglie la somma di Euro 200.000,00, trasferita, mediante bonifico bancario, dal proprio conto. Il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 48-bis, impedisce all’Agenzia delle Entrate di pagare somme superiori a Euro 10.000,00 se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare superiore a detto importo. Il pagamento di una somma superiore di venti volte il limite di legge ha determinato in lui il legittimo affidamento della assenza di pendenze superiori al detto limite; a ciò si aggiunga, prosegue, che dal compendio probatorio è emerso che egli vantava un credito cospicuo nei confronti dell’Erario e che nessuna procedura di accertamento o riscossione di debiti erariali era stata avviata nei suoi confronti. Altrimenti ragionando si arriverebbe all’inaccettabile conclusione che qualsiasi trasferimento di somme o spesa da parte della persona ignara di pendenze erariali a suo carico potrebbe essere inteso quale atto fraudolento; nel caso di specie, tra l’altro, egli di certo non avrebbe girato le somme alla moglie se avesse voluto frodare il fisco.

Considerato in diritto

2. Il ricorso è inammissibile perché generico e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
3.Dalla lettura della sentenza impugnata (e da quella di primo grado), risulta, in fatto, che:
3.1.nel 2013 il M. era esposto nei confronti dell’Erario per l’importo complessivo di Euro 383.000,00 a seguito di imposte dirette e indirette non pagate (e relativi interessi) iscritte a ruolo negli anni 2002-2011;
3.2.egli era titolare di un rapporto di conto corrente acceso (omissis) e privo di disponibilità liquide fino al 3 marzo 2013; il 4 marzo 2013 vi aveva effettuato in versamento di 100,0 Euro;
3.3.il 20 marzo 2013, a seguito di un accordo transattivo del precedente 26 gennaio, l’Agenzia del Demanio vi aveva accreditato la somma di Euro 206.000,00;
3.4.il (omissis) era stato acceso, presso lo stesso istituto di credito, un rapporto di conto corrente intestato alla moglie del M. ;
3.5. Il 25 marzo 2013 il ricorrente, senza alcuna apparente giustificazione, aveva girato 200.000,00 Euro dal proprio conto a quello della moglie;
3.6.nei periodi successivi da detto conto sarebbero stati effettuati solo prelievi.
3.7.Tali circostanze non sono oggetto di contestazione e smentiscono il presupposto, giuridicamente irrilevante, della assenza di procedure volte all’accertamento o alla riscossione del debito erariale e del fine di frodare il Fisco.
4.L’intero D.Lgs. n. 74 del 2000 codifica condotte ciascuna potenzialmente idonea a ledere, da angolazioni diverse, il medesimo ed unico bene giuridico, individuato, come detto, nel dovere di concorrere alle spese pubbliche (e di garantire, conseguentemente, il flusso di beni necessario a farvi fronte). A tal fine il legislatore penale ha selezionato (e presidiato) le fasi dell’obbligazione tributaria, dalla genesi alla sua riscossione, fasi ritenute essenziali al corretto adempimento dell’obbligazione stessa ed individuate nell’obbligo (strumentale) di dichiarare fedelmente i fatti costitutivi dell’obbligazione e il suo oggetto, nell’obbligo di adempiere all’obbligazione tributaria nei tempi e modi previsti, nella necessità (strumentale) di documentare fedelmente le operazioni fiscalmente rilevanti che incidono sull’an e sul quantum dell’obbligazione tributaria e nel dovere di conservare tale documentazione, nella necessità di preservare la riscossione del credito erariale da attività volte a depauperare in modo fraudolento la garanzia costituita dal patrimonio del debitore. Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, comma 1, si ascrive a quest’ultima fase della vita dell’obbligazione tributaria. Attraverso l’incriminazione della condotta da esso prevista il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell’Erario (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251077, secondo cui l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori).
4.1.L’antecedente storico immediato e diretto della norma in questione è costituito dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 97 che, come sostituito dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 15, così recitava: “Il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie dovuti, ha compiuto, dopo che sono iniziati accessi, ispezioni e verifiche o sono stati notificati gli inviti e le richieste previsti dalle singole leggi di imposta ovvero sono stati notificati atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, atti fraudolenti sui propri o su altrui beni che hanno reso in tutto o in parte inefficace la relativa esecuzione esattoriale, è punito con la reclusione fino a tre anni.
La disposizione non si applica se l’ammontare delle somme non corrisposte non è superiore a lire 10 milioni”.
4.2.Le diversità strutturali delle fattispecie, sin da subito segnalate da questa Corte (Sez. 3, n. 17071 del 04/04/2006, De Nicolo, Rv. 234322), sono evidenti: scompare, in quella nuova, ogni riferimento alla necessità dell’effettivo avvio di un qualsiasi accertamento fiscale e non è più conseguentemente richiesto che l’azione abbia effettivamente compromesso l’esecuzione esattoriale: è sufficiente che sia idonea a renderla inefficace (sulla conseguente natura di reato di pericolo concreto la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata; cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648, che ha affermato che il delitto in questione è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare secondo un giudizio “ex ante” – l’attività recuperatoria della amministrazione finanziaria; nonché, Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771, con richiami ai numerosi precedenti conformi); fa ingresso, nella fattispecie, la condotta di “alienazione simulata”, che costituisce modalità alternativa al compimento di atti fraudolenti sui propri o altrui beni.
4.3.Per il concetto di “alienazione simulata” non è necessario ricorrere all’armamentario definitorio previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. g-bis, introdotto successivamente all’art. 11, stesso decreto. È sufficiente attingere alle comuni definizioni civilistiche, preesistenti alla norma in questione, secondo le quali la simulazione è finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quellà reale. Sicché, l’alienazione è simulata quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa) alla effettiva volontà dei contraenti. V’è piuttosto da dire che nell’ambito della alienazione simulata rientra anche quella a titolo gratuito, non ponendo la norma limiti definitori al titolo (oneroso o meno) della “alienazione” e non essendovi motivo alcuno per escludere la donazione dall’ambito di applicabilità della norma. In ossequio al principio di stretta legalità e tassatività della fattispecie penale, deve però trattarsi di alienazione “simulata”.
4.4.Ove, come nel caso di specie, il trasferimento sia effettivo, la relativa condotta non può essere considerata alla stregua di un atto simulato ma deve essere valutata esclusivamente quale possibile atto fraudolento, dovendosi intendere per tale l’atto idoneo a rappresentare una realtà non corrispondente al vero e a mettere a repentaglio o comunque ostacolare l’azione di recupero del bene da parte dell’Erario (Sez. 3, n. 3011 del 05/07/2016, Rv. 268798). Come spiegato in motivazione, “in conformità alla “ratio” della norma, per “atto fraudolento” deve intendersi qualsiasi atto che, non diversamente dalla alienazione simulata, sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero, mettendo a repentaglio o comunque rendendo più difficoltosa l’azione di recupero del bene in tal modo sottratto alle ragioni dell’Erario. Si è così affermato che integra la condotta, rilevante come sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte dovute da società, la messa in atto, da parte degli amministratori, di più operazioni di cessioni di aziende e di scissioni societarie simulate finalizzate a conferire ai nuovi soggetti societari immobili, dal momento che nella fattispecie criminosa indicata rientra qualsiasi stratagemma artificioso del contribuente tendente a sottrarre, in tutto o in parte, le garanzie patrimoniali alla riscossione coattiva del debito tributario (Sez. 3, n. 19595 del 09/02/2011, Vichi, Rv. 250471), la costituzione di un fondo patrimoniale (Sez. 3, n. 5824 del 18/12/2007, Soldera, Rv. 238821; si veda però Sez. 3, n. 9154 del 2015, infra), la vendita simulata mediante stipula di un apparente contratto di “sale and lease back” (Sez. 3, n. 14720 del 06/03/2008, Ghiglia, Rv. 239972); ma anche la costituzione fittizia di servitù, di diritti reali di godimento, la concessione di locazione, la ricognizione di debito, insomma ogni atto di disposizione del patrimonio che abbia la sua causa nel pregiudizio alle ragioni creditorie dell’Erario”.
4.5.La fraudolenza deve qualificare l’atto sul piano oggettivo, senza che sia necessario attingere a fatti o comportamenti ad esso estrinseci per escluderne la natura. Inoltre, poiché la fraudolenza qualifica l’atto sul piano oggettivo, essa preesiste al dolo specifico dell’azione e non ne può essere contaminato a fini qualificatori; il fine di sottrazione qualifica il dolo specifico non la natura fraudolenta dell’atto mediante il quale l’agente persegue lo scopo, sicché non è corretto qualificare la natura fraudolenta dell’atto in considerazione (e a causa) dello scopo perseguito dal suo autore. I piani devono rimanere distinti se si vuole evitare che il disvalore dall’azione si tramuti in disvalore della volontà e, sopratutto, se si vuole evitare l’allargamento della fattispecie a condotte non tipiche.
4.6.È piuttosto importante precisare (e ribadire) in questa sede che oggetto di immediata tutela dell’incriminazione della condotta non è il patrimonio in sé del contribuente, che costituisce garanzia (generica) del debito erariale contratto (art. 2740 c.c.), quanto, piuttosto, la necessità di preservare la riscossione del credito erariale da qualsiasi attività volta a depauperare in modo fraudolento tale garanzia così da ostacolare l’attività di riscossione coattiva del credito. L’interpretazione della norma non dà adito a dubbi posto che la natura simulata ovvero fraudolenta, rispettivamente della vendita o dell’atto, qualifica l’azione sotto il profilo della sua offensività. Occorre, cioè, che per effetto della condotta si determini una situazione tale per la quale il bene simulatamente alienato o in relazione al quale sono stati compiuti atti fraudolenti appaia all’Erario effettivamente uscito dal patrimonio del debitore sì da renderne impossibile o comunque più difficile il recupero. Non rilevano, dunque, i fisiologici atti di disposizione del proprio patrimonio che il contribuente può liberamente compiere (si veda, sul punto, Sez. 3, n. 25677 del 2012, citata dai ricorrenti e di cui oltre si dirà); rileva la disposizione fraudolenta, quella cioè oggettivamente idonea a ingannare il terzo sulla reale consistenza del patrimonio stesso.
5.Orbene, nel caso di specie l’azione del ricorrente è stata, posta in essere nella piena ed incontestata consapevolezza dell’esistenza di un ingente debito tributario risalente ad anni prima. Sicché, come correttamente affermato dalla Corte di appello, egli non può giovarsi dell’errore evidentemente compiuto dall’Agenzia del Demanio; se così fosse, del resto, il ricorrente avrebbe dovuto spiegare (e non lo ha mai fatto, nemmeno in questa sede) le ragioni della accensione del conto intestato alla moglie subito dopo l’accredito della somma e del trasferimento a favore di quest’ultima di una somma così ingente.
5.1.In disparte queste considerazioni, però, il ricorrente non deduce il vizio di motivazione della sentenza impugnata ma solo il malgoverno sostanziale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 48-bis, senza alcuna spiegazione delle ragioni per le quali la norma suddetta sia stata erroneamente interpretata o violata dalla Corte di appello e con quale effetto sulla corretta applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11.
6.Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

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