Quali elementi distinguono il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato?
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 30 gennaio – 7 aprile 2020, n. 11570
Presidente Ramacci – Relatore Macrì
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 19 giugno 2019, la Corte d’appello di Torino, respingendo il gravame proposto dall’odierno ricorrente, ha confermato la sentenza con cui, all’esito del giudizio abbreviato, il medesimo era stato condannato alle pene di legge per i reati previsti dall’art. 416 c.p. e D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 quater, per essersi associato con altri, essendo gli aderenti almeno dieci ed essendo egli organizzatore, al fine di commettere reati tributari e di altra natura e per aver ripetutamente utilizzato in compensazione crediti inesistenti in concorso con numerosi contribuenti.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, con il primo motivo, violazione della legge penale e vizio di motivazione per essere stato riconosciuto il contestato reato associativo nonostante l’insussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo e, comunque, per essere stata riconosciuta la circostanza aggravante del numero degli associati di cui all’art. 416 c.p., comma 5.
Si lamenta, in particolare, che, pur avendo la sentenza indicato le ritenute responsabilità dei correi, non avrebbe superato quella carenza probatoria, già lamentata con il gravame, circa la sussistenza di un vincolo associativo e dell’affectio societatis, necessari per l’integrazione del reato contestato e per distinguerlo dal mero concorso di persone nel reato. Si stigmatizza come apodittica l’affermazione secondo cui non sarebbe possibile ritenere che i coimputati diversi dal ricorrente e dal di lui padre – dipendenti o meno dello studio da costoro gestito – fossero ignari del compimento di attività illecite e agissero in modo scoordinato e scollegato rispetto alle direttive dell’imputato, ciò che non sarebbe peraltro sufficiente a provare il vincolo associativo.
3. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la carenza di motivazione con riguardo al rigetto della doglianza volta ad ottenere la riduzione del trattamento sanzionatorio, essendosi la sentenza soffermata soltanto sull’ulteriore motivo di gravame afferente al bilanciamento delle circostanze di opposto segno ed avendo erroneamente ritenuto che l’appellante non avesse specificamente indicato le ragioni che militavano per la riduzione di pena.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
La genericità, invero, è causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568). In particolare, i motivi del ricorso per cassazione – che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito – si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicché è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).
Nel caso di specie, esaminando e respingendo il motivo di gravame nuovamente riproposto in questa sede, la sentenza impugnata argomenta in modo puntuale, prendendo in esame le specifiche posizioni di ben nove persone indicate come associati del ricorrente, il ruolo da ciascuno svolto all’interno del sodalizio e la loro consapevolezza di essere al servizio di una struttura organizzata che, dissimulata sotto l’apparente schermo di una società di servizi, aveva quale unico fine quello di commettere una indeterminata serie di reati tributari (in particolare illecite compensazioni e false fatturazioni) e di altri delitti (quali il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). La sentenza motiva specificamente sul ruolo tenuto da ciascuno di essi – dipendenti o collaboratori dello studio – nell’essersi consapevolmente prestati all’abituale svolgimento di pratiche illecite, seguendo le direttive del ricorrente e del padre ed in modo coordinato rispetto a costoro, sfruttando la struttura organizzativa dello studio G. Srl, definito come “centro di servizi che forniva prestazioni illecite, laddove la forma sociale costituiva lo schermo giuridico per la perpetrazione di vari reati”.
2. In fatto, come si diceva, il ricorso non si confronta con le puntuali, e certo non illogiche, argomentazioni al proposito spese in sentenza e svolge una critica del tutto generica e sganciata da esse, ignorando anche che detta motivazione delinea, appunto, il ruolo di ben nove associati i quali, unitamente al ricorrente, raggiungono il numero minimo richiesto dall’art. 416 c.p., comma 5, per l’integrazione della circostanza aggravante correttamente ritenuta.
In diritto, poi, la sentenza impugnata ha certamente fatto buon governo dei consolidati principi secondo cui l’associazione per delinquere si caratterizza per tre fondamentali elementi, costituiti da un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati, dall’indeterminatezza del programma criminoso che distingue il reato associativo dall’accordo che sorregge il concorso di persone nel reato, e dall’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, ma idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira (Sez. 2, n. 16339 del 17/01/2013, Burgio e aa., Rv. 255359). La predisposizione di un programma criminoso ben può consistere nella commissione di una serie indeterminata di delitti identici o di analoga natura, non costituendo il carattere eterogeneo dei reati-fine un elemento strutturale della fattispecie (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-01), potendo peraltro l’associazione essere progettata per operare per un tempo determinato (Sez. 6, n. 38524 del 11/07/2018, P., Rv. 274099). Neppure è di ostacolo alla configurabilità del reato la diversità o la contrapposizione degli scopi personali perseguiti dai componenti, i quali rilevano esclusivamente come motivi a delinquere (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-02). Ciò che conta per la integrazione della fattispecie associativa è che sia stata realizzata una struttura stabile, funzionalmente destinata alla commissione di una serie indeterminata di delitti (Sez. 6, n. 19783 del 16/04/2013, De Caro e aa., Rv. 255471), un’organizzazione strutturale, sia pure minima, di uomini e mezzi, nella consapevolezza, da parte di singoli associati, di far parte di un sodalizio durevole e di essere disponibili ad operare nel tempo per l’attuazione del programma criminoso comune (Sez. 2, n. 20451 del 03/04/2013, Ciaramitaro e aa., Rv. 256054).
D’altra parte, l’elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato è individuabile nel carattere dell’accordo criminoso, che nel concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati – anche nell’ambito di un medesimo disegno criminoso – con la realizzazione dei quali si esaurisce l’accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all’attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell’effettiva commissione dei singoli reati programmati (Sez. 5, n. 1964 del 07/12/2018, dep. 2019, Magnani, Rv. 274442). La condotta di partecipazione associativa si distingue dunque da quella del concorrente ex art. 110 c.p., perché, a differenza di questa, implica l’esistenza del pactum sceleris, con riferimento alla consorteria criminale, e della affectio societatis, in relazione alla consapevolezza del soggetto di inserirsi in un’associazione vietata, con la conseguenza che è punibile, a titolo di partecipazione e non in applicazione della disciplina del concorso esterno, colui che presta la sua adesione ed il suo contributo all’attività associativa, anche per una fase temporalmente limitata (Sez. 2, n. 47602 del 29/11/2012, Miglionico, Rv. 254105). Ai fini della configurabilità di un’associazione per delinquere, peraltro, legittimamente il giudice può dedurre i requisiti della stabilità del vincolo associativo, trascendente la commissione dei singoli reati-fine, e dell’indeterminatezza del programma criminoso, che segna la distinzione con il concorso di persone, dal susseguirsi ininterrotto, per un apprezzabile lasso di tempo, delle condotte integranti detti reati ad opera di soggetti stabilmente collegati (Sez. 2, n. 53000 del 04/10/2016, Basso e a., Rv. 268540, concernente fattispecie, molto simile a quella qui sub iudice, in cui si è confermata la sussistenza di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di frodi in assicurazione osservandosi che, a fronte della gestione di un numero cospicuo di sinistri simulati, i compartecipi non potevano non rappresentarsi che lo studio professionale di uno di loro fungesse da struttura organizzata per la commissione delle frodi).
Occorre, da ultimo, rilevare che – come logicamente ha argomentato la sentenza impugnata – è ben configurabile il durevole asservimento alla commissione delle attività proprie di un’associazione criminale di una società di capitali, con la sua struttura ed il suo patrimonio, apparentemente dedita allo svolgimento di normali attività commerciali ed invece strutturalmente illecita (cfr. Sez. 6, n. 20244 del 08/02/2018, Fedele, Rv. 273268).
3. Il secondo motivo è del pari generico e manifestamente infondato.
Contrariamente a quanto si sostiene in ricorso, la sentenza impugnata motiva compiutamente le ragioni per cui la pena inflitta in primo grado viene ritenuta non suscettibile di riduzione, posto che – nel confermare il giudizio di equivalenza tra le circostanze di opposto segno, addirittura ritenendo fin troppo benevola la concessione da parte del primo giudice delle circostanze attenuanti generiche – rileva come le condizioni di vita dell’imputato e la sua condotta processuale non valgano a guadagnargli particolare meritevolezza, essendo del tutto congrue, rispetto ai parametri indicati nell’art. 133 c.p., le determinazioni della pena base per il reato associativo (fissata in misura moderatamente superiore al minimo edittale) e gli aumenti fissati a titolo di continuazione.
Il percorso logico seguito dai giudici di merito è stato adeguatamente esposto, non appare inficiato da illogicità manifesta e non è dunque sindacabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), essendo peraltro ossequioso dei parametri sulla gravità del reato e sulla capacità a delinquere del reo previsti dall’art. 133 c.p..
D’altra parte, può altresì richiamarsi il principio secondo cui, in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale – quale certamente è quella di specie – non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197).
4. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile ed alla declaratoria di inammissibilità, tenuto conto della sentenza Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
L’imputato va inoltre condannato a rimborsare le spese sostenute nel grado dalla parte civile Agenzia delle Entrate, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel grado, che liquida in complessivi Euro. 3.510,00, oltre spese generali.