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Prima pronuncia della S.C. in tema di applicazione del D. Lgs. 231/2001 nell’ambito dei reati tributari commessi da amministratori di società

Sentenza n. 16302/2022 Cass. pen.

Con la pronuncia in oggetto, la Corte di Cassazione ha confermato, per la prima volta, l’applicazione dell’illecito previsto dagli artt. 5 lett. a), 6 lett. a), 25-quinquiesdecies d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 nei confronti di una società di capitali, i cui amministratori sono stati condannati per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74  (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti).

Con l’introduzione della legge n. 157/2019, di conversione del decreto-legge n. 124/2019, è stata infatti stabilita la responsabilità degli enti per i reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74/2000, responsabilità che va ad integrare quella originariamente disciplinata dagli artt. 24-26 del predetto D.Lgs 231/2001 in tema, a titolo esemplificativo, di indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato, delitti informatici e trattamento illecito di dati, delitti di criminalità organizzata, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e corruzione, reati societari.

Con la previsione, nell’elenco dei reati presupposto, di quelli ricavabili dal testo del D.Lgs 74/2000, si è quindi sensibilmente allargato il campo di applicabilità del D. Lgs n. 231/2001, con evidenti e sostanziali ripercussioni sul patrimonio delle società beneficiarie degli effetti dell’illecito tributario: in particolare, la pronuncia segnalata costituisce il primo caso trattato dalla Suprema Corte, la quale ha confermato la legittimità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni – disposto dal GIP del Tribunale di Milano – a seguito della commissione di reati tributari da parte degli amministratori, reati dai quali la società aveva conseguito un vantaggio patrimoniale pari ad euro 5.245.999,53 (per Iva indetraibile nell’anno 2019) e 5.275.845,83 (per Iva indetraibile nell’anno 2020).

In particolare, secondo la S.C. il vantaggio è stato conseguito avendo “il committente, attraverso un appalto non genuino, ha azionato il diritto alla detrazione dell’Iva dopo aver articolato un meccanismo in forza del quale, attraverso il pagamento di fatture per “finti” appalti di opere e servizi, ha “scaricato” l’Iva da un consorzio che, a sua volta, ha “scaricato” il tributo dalle cooperative consorziate che l’avrebbero dovuto versare allo Stato ed invece, dopo qualche anno, hanno cessato l’attività, rimanendo in debito verso l’erario, che è risultato impedito nel recupero dell’imposta, con conseguente accollo dell’evasione fiscale alla collettività.

Tale vantaggio ha fatto ritenere sussistenti “tutti i presupposti fattuali e giuridici della ipotizzata responsabilità della società ricorrente ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-quinquiesdecies risultando infondato il primo motivo di ricorso e manifestamente infondati o non consentiti gli altri.”

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente –
Dott. DI NICOLA Vi – rel. Consigliere –
Dott. SOCCI Angelo – Consigliere –
Dott. CERRONI Claudio – Consigliere –
Dott. NOVIELLO Giusepp – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
DHL SUPPLY CHAIN S.p.a.;

avverso l’ordinanza del 19-07-2021 del tribunale della libertà di
Milano;
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione del Consigliere Dott. Vito Di Nicola;
udita la requisitoria del Procuratore Generale, Dott. Giordano Luigi,
che ha concluso per l’annullamento con rinvio;
udito il difensore, avvocato Francesco Isolabella, che ha concluso
per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La DHL SUPPLY CHAIN S.p.a. ricorre per la cassazione dell’ordinanza in data 19 luglio 2021 con la quale il tribunale del riesame di Milano ha confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP presso il Tribunale di Milano in data (OMISSIS) nei confronti, tra l’altro, di DHL Supply Chain (Italy) spa (di seguito, anche DSC) incolpata del seguente illecito amministrativo dipendente da reato:
Illecito p. e p. dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 5, lett. a), art. 6, lett. a), art. 25-quinquiesdecies in quanto le persone fisiche ( D.V.F., in qualità di presidente del consiglio di amministrazione e consigliere delegato di DHL Supply Chain (Italy) spa sino al 17 maggio 2018, e L.A., in qualità di presidente del consiglio di amministrazione e consigliere delegato di DHL Supply Chain (Italy) spa dal 17 maggio 2018 in poi), soggetti apicali di DHL Supply Chain Italy spa, ponevano in essere l’illecito penale di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 nell’interesse e a vantaggio della società, che otteneva un vantaggio patrimoniale pari a Euro 5.245.999,53 (per IVA indetraibile 2019) e Euro 5.275.845,83 (per IVA indetraibile 2020). In (OMISSIS).
Il reato presupposto, formulato nei confronti dei soggetti apicali della società incolpata, è stato così rubricato:
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 perché, nelle qualità di cui sopra, al fine di evadere l’IVA, avvalendosi di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti emesse dal Consorzio Industria dei Servizi, simulando contratti di appalto invece di contratti di somministrazione di mano d’opera, nelle dichiarazioni IVA della DHL Supply Chain (Italy) Spa relativi alle annualità (OMISSIS), indicavano elementi passivi fittizi (IVA indetraibile) per un ammontare complessivo di Euro 20.748.948,41 (Euro 4.757.310,63 nel (OMISSIS); Euro 5.470.792,42 nel (OMISSIS); Euro 5.245.999,53 nel (OMISSIS); Euro 5.275.845,83 nel 2020). In (OMISSIS) in data (OMISSIS).
2. Il ricorso, presentato dal difensore di fiducia, è affidato a quattro motivi, di seguito enunciati ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge sotto il profilo dell’interpretazione e dell’applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, comma 1 e art. 1, comma 1, lett. b), in quanto la falsità delle fatture – sia soggettiva che oggettiva – della quale si ritiene sussistere il fumus sarebbe in ogni caso irrilevante all’evasione dell’imposta per insussistenza degli elementi del reato.
Osserva la ricorrente che la condotta ipotizzata, infatti, non solo non integra il reato sotto il profilo soggettivo (per mancanza dell’elemento psicologico), ma neppure sotto il profilo oggettivo (per totale assenza di ogni vantaggio fiscale anche solo potenziale).
Ad avviso della ricorrente, infatti, l’IVA dell’operazione in oggetto non rappresenta una evasione fiscale, tant’e’ che né il tribunale del riesame, né il giudice per le indagini preliminari e neppure il pubblico ministero sono stati in grado di indicare (anche a prescindere dalla simulazione) la ragione per cui l’IVA esposta nelle fatture emesse da IDS, pagata e detratta da DSC, rappresenterebbe un vantaggio fiscale per quest’ultima e, comunque, non sono stati in grado di definire gli elementi attivi o passivi fittizi che avrebbero determinato o potuto determinare il vantaggio fiscale indebito integrando la condotta prevista e punita dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 quale definiti dall’art. 1, comma 1, lett. b) medesimo decreto; elementi che non possono in alcun modo essere semplicemente individuati – come invece ipotizza il decreto di sequestro nell’ipotetica inesistenza oggettiva o soggettiva delle fatture e quindi nell’IVA asseritamente indetraibile, in quanto l’imposta non è un elemento attivo o passivo quale definito dalla norma, dato che l’elemento attivo o passivo, così come indicato dalla norma, deve poter determinare – anche solo in astratto – un concreto vantaggio fiscale incidendo, attraverso un utilizzo volontario e finalistico, sulla determinazione del reddito e/o delle basi imponibili rilevanti.
La imputazione provvisoria, perciò, confonderebbe gli elementi passivi fittizi necessari per la sussistenza del reato con l’asserito profitto (imposta asseritamente evasa), senza contare che, oltretutto, il trattamento fiscale dell’operazione asseritamente simulata sarebbe stato uguale a quello realmente applicato sotto ogni profilo (cioè sia sotto il profilo oggettivo, ossia come natura della prestazione, sia sotto il profilo soggettivo, ossia come effettivo emittente della fattura).
Sotto tale aspetto, la questio iuris sottoposta alla Corte di legittimità è stata enunciata nel seguente modo: “se sia corretta la configurabilità del fumus commissi delicti in merito all’integrazione del reato previsto e punito dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 nel contesto di condotte – le dichiarazioni IVA di DSC incapaci di produrre a favore di DSC il vantaggio fiscale richiesto dalla norma”.
Questo perché l’ordinanza impugnata, pur senza mai essere in grado di descrivere in che cosa consista il vantaggio fiscale richiesto e tantomeno di tracciarne il dolo richiesto, ha sostenuto l’esistenza di una frode IVA unicamente richiamando la presunta inesistenza oggettiva e al contempo soggettiva delle fatture utilizzate da DSC.
Sostiene infatti la ricorrente che la mancanza di una concreta aspettativa di vantaggio fiscale correlato alla presentazione delle dichiarazioni Iva attraverso l’utilizzazione delle fatture IDS, conseguente alla inesistenza di elementi passivi fittizi indicati nella dichiarazione Iva, farebbero venire meno non solo l’integrazione, ma anche il fumus del reato di frode fiscale.
In altri termini, sotto il profilo oggettivo si osserva come la neutralità dell’imposta Iva applicabile ai diversi contratti renda indifferente, dal punto di vista del tributo fiscale, la qualificazione giuridica del contratto stesso, avendo DSC anticipato l’Iva che ha poi portato in detrazione, con la conseguenza che nessun vantaggio sarebbe stato ottenuto né avrebbe potuto in alcun modo essere ottenuto da DSC.
Sotto il profilo soggettivo, si osserva come l’indicazione in fattura di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura o prestato il servizio, rileverebbe ai fini del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 soltanto nei casi, nella specie ritenuti dalla ricorrente non sussistenti, in cui la falsa indicazione incida sulla misura dell’aliquota e conseguentemente sull’entità dell’imposta che l’acquirente o il committente possa legittimamente detrarre.
Perciò, sotto il profilo penal-tributario e in estrema sintesi, la contestazione di una frode fiscale per utilizzo di fatture false, deve, con onere della prova a carico dell’accusa, necessariamente comportare un vantaggio fiscale ottenuto attraverso le fatture asseritamente false, con la conseguenza che l’assenza di un vantaggio fiscale fa venir meno il reato per mancanza di tipicità.
Nel caso di specie, sia IDS che le proprie consorziate avevano il medesimo regime Iva, sia che si configuri la fattispecie dell’appalto, sia che si configuri quella della somministrazione di manodopera; essendo IDS una società consortile, andavano poi applicate le specifiche norme inerenti ai rapporti fiscali tra consorzio e consorziate (come meglio specificato in altro motivo di ricorso); norme che, identificando l’uno con le altre, impedivano anche sotto tale profilo di poter parlare di soggetti aventi diversa aliquota Iva; in ogni caso, anche ove si dovesse sostenere l’effettiva esistenza di un rapporto di somministrazione, quest’ultima sarebbe soggetta a imposizione Iva e quindi non ci sarebbe diversità di regime Iva applicabile tra appalto e somministrazione, principio, quest’ultimo, affermato, come sottolinea la ricorrente, anche dalla Corte di giustizia che, intervenendo sulla questione della rilevanza ai fini Iva delle prestazioni di servizi aventi ad oggetto la messa a disposizione di personale, nella sentenza resa l’11 marzo 2020 nella causa C 94/19, ha ritenuto contrario al sistema comunitario di imposizione sul valore aggiunto la previsione di cui alla L. 11 marzo 1988, n. 67, art. 8, comma 35, avuto riguardo ai prestiti o ai distacchi di personale a fronte dei quali è versato il solo rimborso del relativo costo.
Analizzata funditus la fattispecie astrattamente prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 e gli elementi che la caratterizzano, la ricorrente afferma che la fattispecie tipizzata dall’art. 2 non punisce formalisticamente e indiscriminatamente il mero utilizzo a fini dichiarativi di “fatture per operazioni inesistenti”, sanzionando invece tali condotte solo nella misura in cui siano soggettivamente funzionali ed oggettivamente idonee ad incidere sulla corretta determinazione delle imposte dovute, rappresentando nella dichiarazione “elementi passivi fittizi” (che oggettivamente difettano quando la fattura “per operazioni inesistente” non determina alcuna variazione rispetto a quella indicativa della “operazione esistente”).
Alla luce di ciò, la ricorrente ritiene che il Tribunale del Riesame abbia violato il disposto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2.
Se infatti, come afferma il Tribunale del Riesame, è da un lato indubitabile che, ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 rilevano tanto le ipotesi di falsità delle fatture in termini oggettivi, quanto quelle in termini soggettivi, è altrettanto indubitabile che, in tanto una ipotesi di simulazione contrattuale può assumere rilevanza penale, in quanto lo schema contrattuale, oggettivamente o soggettivamente simulato, determini sia l’applicazione di un regime fiscale più favorevole e altrimenti non applicabile, sia la concreta aspettativa di un vantaggio fiscale cui la condotta è finalizzata.
Dopo essersi nuovamente soffermata sulla sentenza resa l’11 marzo 2020 nella causa C 94/19 dalla Corte di Giustizia ed alla connessa questione della contestata inesistenza delle fatture per interposizione soggettiva, la ricorrente riscontra un’ulteriore anomalia del titolo cautelare stante l’impossibilità di individuare gli “elementi passivi fittizi” e soprattutto il relativo e necessario vantaggio fiscale conseguente a tali elementi passivi fittizi, tanto che il provvedimento cautelare indica come tali l’IVA esposta in fattura (IVA indetraibile), in violazione pertanto del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. b), sul rilievo che l’imposta non può essere considerata come “elemento passivo fittizio” dovendo lo stesso essere individuato nella componente espressa in cifra che concorre alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti o in un elemento che incide sulla determinazione dell’imposta, certamente non nell’imposta stessa.
2.2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione di legge in relazione agli artt. 2602 c.c. e ss., artt. 1704 e 1705 cit. codice e dell’art. 42, comma 2, del “CCNL logistica, trasporto merci e spedizione 2016-2019” del 3 dicembre 2017, di cui si deve tener conto nell’applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 ai fini della corretta individuazione dei soggetti che svolgono le operazioni di cui alle fatture ritenute – erroneamente – soggettivamente inesistenti.
La ricorrente, dopo aver delineato il ruolo in funzione dei consorzi ed analizzato la disciplina fiscale degli stessi, deduce come l’impugnata ordinanza sia incorsa nella violazione di legge denunciata non avendo considerato che il consorzio con attività esterna, appunto IDS, si pone legittimamente in una posizione di intermediario tra le sue consorziate e il committente dei servizi, non essendo richiesto al consorzio di svolgere direttamente le attività oggetto dell’appalto né di possedere risorse e strutture idonee a farlo, atteso che l’affidamento dell’esecuzione delle attività oggetto del contratto di appalto dal consorzio alle consorziate consegue al rapporto di mandato e non, invece, ad un subappalto, dovendosi quindi escludere ogni ipotesi di fittizia interposizione e di falsità soggettiva come affermata dal tribunale del riesame.
2.3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e/o l’erronea applicazione delle leggi e di altre norme giuridiche necessarie per la corretta qualificazione delle prestazioni – in questo caso – fornite da IDS e dalle consorziate, in quanto il tribunale del riesame ha qualificato le prestazioni fornite da IDS e dalle sue consorziate quali somministrazione di manodopera in piena disapplicazione delle norme che prevedono le responsabilità – e i conseguenti oneri – del committente rispetto all’appaltatore, norme di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. a) e art. 2: art. 1676 c.c. (responsabilità del committente per omesse retribuzioni, contribuzioni, indennità), D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, (responsabilità del committente per omesso versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi), D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 26 (obblighi connessi ai contratti di appalto o d’opera o di somministrazione), D.Lgs. n. 241 del 1997, art. 17-bis aggiunto dal D.L. n. 124 del 2019, art. 4 (convertito in L. n. 124 del 2019); art. 42 CCNL logistica, trasporto merci e spedizioni del 3 dicembre 2017, in particolare i commi 1, 4, 5, 6, 8 e 9 (che prevedono controlli specifici da parte del committente sulla applicazione del CCNL e sul rispetto di ogni normativa così come sull’obbligo di continuità lavorativa ossia il mantenimento dei posti di lavoro con garanzia sul mantenimento della anzianità, trattamenti salariali e disciplinari). Tutte norme che impongono alla committente di eseguire molteplici e continui controlli, anche specifici sui trattamenti salariali e sulle posizioni lavorative, oltre che di garantire la continuità lavorativa agli stessi lavoratori, anche in caso di cambio della società appaltatrice.
Secondo la ricorrente la violazione di legge sarebbe integrata altresì dall’omesso esame di punti decisivi – sulla inesistenza di simulazione dell’appalto – devoluti al tribunale del riesame dalla difesa.
Sotto tale specifico profilo, la ricorrente deduce come l’ordinanza impugnata non abbia tenuto in alcuna considerazione le evidenze poste dalla difesa nel procedimento di riesame che rendevano conto della genuinità dell’appalto e della fisiologia dei rapporti tra committente e fornitore.
Ne’ l’ordinanza impugnata avrebbe preso in considerazione gli argomenti difensivi allo stesso devoluti e in particolare non avrebbe tenuto in alcun conto la presenza dei preposti, identificati anche nominativamente dal testimone escusso dalla difesa ai sensi dell’art. 391-bis c.p.p., di cui si era fornita al tribunale la trascrizione, e la riconducibilità esclusivamente ad essi di tutte le comunicazioni (intercettazioni e-mail) che il tribunale del riesame ha indicato come prova della diretta direzione da parte della committente sui lavoratori dell’appaltatrice. Inoltre, la contraddittorietà e l’incoerenza della tesi accusatoria sarebbe evidente anche nella parte in cui viene stigmatizzata l’intensa attività di controllo e coordinamento posta in essere da DSC per ottemperare alla normativa e ridurre, nel modo più concreto possibile, i rischi di inadempienza dei fornitori rispetto ai plurimi obblighi di legge.
In tale contesto, e con riferimento a quanto contenuto alle pagine 15 e 16 dell’ordinanza impugnata, si spiega l’affidamento da parte di DSC a MACEAS S.r.l. del controllo della regolarità contributiva dei propri fornitori.
2.4. Con il quarto motivo la ricorrente prospetta l’illegittimità della ordinanza impugnata per inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis per assenza del profitto e di attualità del debito fiscale da tutelare col sequestro preventivo finalizzato alla confisca.
3. Sono stati presentati motivi nuovi con i quali la ricorrente si duole della violazione dell’art. 321 c.p.p., comma 2, art. 27 Cost., comma 2, art. 6, par. 2 CEDU, art. 1, par. 3 reg. 2018/1805 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018, anche secondo il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite della Corte Suprema di cassazione con la sentenza n. 36959 del 11 ottobre 2021 (ud. 24 giugno 2021) in relazione alla necessità della sussistenza del periculum – e della sua motivazione – che giustifichi l’anticipazione – attraverso la misura cautelare reale – della esecuzione della confisca rispetto all’accertamento processuale e alla eventuale condanna definitiva.
Osserva come la disposizione ablativa cautelare, oltre ad essere stata emessa in assenza del presupposto del fumus, sia stata anche emessa nella totale assenza del periculum nonché di ogni motivazione idonea ad argomentarne la sussistenza.
Ne consegue che nel caso di specie: 1) da un lato – essendo stato risolto il rapporto col fornitore come riferisce lo stesso Tribunale della Libertà a pagina 25 dell’ordinanza – non vi è alcun “periculum” di reiterazione, mentre 2) dall’altro, come chiarito dalle Sezioni Unite Ellade, il periculum che il Giudice deve individuare e motivare nel provvedimento ablativo di cui all’art. 321 c.p.p., comma 2 non è quello della reiterazione (non avendo tale sequestro finalità impeditive), ma quello di dissipazione o comunque rischio di compromissione del patrimonio.
Obietta la ricorrente come, nel provvedimento impugnato – così come nel decreto di sequestro – non vi sia alcun riferimento a tale rischio:
– perché manca ogni richiamo al periculum della perdita di garanzia del credito;
– perché non esiste un tale rischio nel caso di specie.
Logica conseguenza sarebbe di ritenere illegittima l’anticipazione della sanzione, consistente nell’avvenuta ablazione cautelare, nonostante: 1) la mancanza del debito da tutelare, 2) la mancanza dello stesso fumus commissi delicti, 3) la mancanza di ogni periculum e, 4) la mancanza di ogni motivazione in ordine alla ipotetica sussistenza di un periculum.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso – inammissibile laddove, pur denunciando apparentemente la violazione di legge, mira a sindacare la congrua e logica motivazione dell’ordinanza impugnata – non è fondato.
I quattro motivi, essendo tra loro strettamente collegati, debbono essere congiuntamente esaminati.
2. La Corte ha reiteratamente affermato che, al cospetto di un completo apparato argomentativo, le doglianze – nella parte in cui si incentrano su vizi della motivazione – non sono consentite, essendo il loro ingresso precluso nel giudizio di legittimità dal fatto che, in materia di impugnazioni cautelari reali, sono ammesse le sole censure dirette a denunciare il vizio di violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice. (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692).
Ciò posto, nel caso in esame, occorre segnalare come il percorso argomentativo seguito dal Tribunale cautelare, per giungere alla censurata decisione, sia del tutto esemplare per tecnica espositiva, per impostazione sistematica delle questioni risolte e per il conseguente contenuto della pronuncia, avendo i giudici della cautela affrontato funditus tutte le doglianze sottoposte al loro vaglio mediante la precisa e diffusa indicazione delle ragioni per le quali hanno ritenuto di confermare il decreto di sequestro impugnato, tanto sulla base delle risultanze istruttorie che, apprezzate nel loro complesso, annoverano l’incrocio e l’analisi di dati tratti dalle banche dati di polizia e dell’Agenzia delle Entrate, ivi compresi quelli relativi alle dichiarazioni (annuali) IVA presentate; gli esiti delle intercettazioni attivate su dodici utenze telefoniche, compendiati dall’annotazione n. (OMISSIS) del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Milano; il contenuto di mail, comunicazioni e documentazione, contabile ed extracontabile, rinvenuta in occasione delle perquisizioni effettuate il (OMISSIS); gli esiti investigativi contenuti, in particolare, nella nota della GdF del (OMISSIS).
3. In via preliminare, il Collegio cautelare ha chiarito come, dalle verifiche dell’Agenzia delle Entrate (compendiate nella nota del (OMISSIS), approfondita nella nota del (OMISSIS) successivo), sia stata accertata l’evasione dell’IVA, per omesso versamento dell’imposta dichiarata, da parte di numerose cooperative e consorzi di lavoratori accomunati dall’avere fornito la forza lavoro necessaria ai servizi di handling effettuati presso gli stabilimenti della ricorrente in (OMISSIS) (nel periodo (OMISSIS) – (OMISSIS), l’ammontare delle imposte iscritte a ruolo superava i 27,5 milioni di Euro).
Nel farsi carico dei rilievi difensivi, il Tribunale del riesame ha tuttavia opportunamente precisato come DSC non fosse, quanto meno allo stato, chiamata a rispondere di uno schema delittuoso che la rendesse responsabile (anche) degli illeciti tributari riferibili alle cooperative che fornivano, in subappalto, la forza lavoro: l’illecito penale tributario contestato ai suoi manager, cui il sequestro preventivo impugnato si rapporta, riguarda unicamente le dichiarazioni IVA presentate in proprio dalla ricorrente.
Peraltro, gli inadempimenti tributari di cooperative e consorzi hanno costituito, viceversa, lo spunto da cui gli inquirenti sono partiti per ricostruire l’adozione, da parte di DHL Supply Chain (Italy) spa, di un modello operativo secondo cui: DSC non assumeva i lavoratori di cui necessitava per erogare i propri servizi; dopo essersi aggiudicata le commesse da parte dei principali attori economici nazionali (la ricorrente è risultata interamente di proprietà di DHL Holding Italy s.r.l., a propria volta interamente partecipata da Deutsche Post Beteiligungen Holding GMBH, essendo socio unico di Eurodifarm s.r.l. e Mitsafetrans s.r.l. e risultando così integrata nel gruppo DHL, leader del mercato interno e internazionale della logistica), erogava la prestazione impiegando la forza lavoro fornita da una serie di altri soggetti, attraverso la stipulazione di contratti che avevano la forma giuridica dell’appalto.
E’ emerso che, nei confronti di uno dei fornitori di servizi, ossia il Consorzio Industria dei Servizi (d’ora in poi anche IDS), il rapporto si era articolato con il contenuto concreto di una somministrazione di lavoro da parte delle cooperative finali, che IDS si limitava a “schermare”: IDS, a propria volta, non aveva assunto lavoratori ed era priva dei mezzi necessari ad erogare direttamente la prestazione ma forniva il servizio, formalmente in subappalto, in realtà – nella prospettazione accusatoria convalidata dai giudici cautelari – limitandosi a “filtrare” il rapporto tra DSC (che esercitava, attraverso direttive ad IDS, funzioni proprie del datore di lavoro) e le cooperative di lavoratori.
E’ risultato che lo schermo del consorzio era nell’esclusivo interesse di DSC, in quanto finalizzato ad evitare il coinvolgimento della committente sia in problematiche di gestione della forza lavoro, sia nelle plurime criticità (di natura sindacale, fiscale, previdenziale, amministrativa, sino a comprendere i rischi penali) correlate alle modalità concrete di articolazione del rapporto con i lavoratori.
Di queste criticità DSC era pienamente consapevole e ciò è stato ritenuto comprovato sulla base di uno “swot modello coop” contenuto in una slide, sequestrata il (OMISSIS), in occasione della perquisizione presso lo stabilimento di (OMISSIS), significativa della consapevolezza di incorrere, in ragione del modello operativo prescelto, nel cd. “rischio Ceva”, vale a dire il rischio di incappare in una misura di prevenzione patrimoniale alla stregua della società concorrente Ceva Logistic, che era stata posta ai sensi del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 34 in amministrazione giudiziaria dal Tribunale di Milano, nel (OMISSIS), per avere agevolato, nell’esercizio dell’attività di impresa, la commissione di una serie di reati, anche tributari.
Lo swot è uno strumento di pianificazione strategica che, come emerge dal testo del provvedimento impugnato, era stato adottato da DSC, all’esito di un confronto durato quanto meno un anno e mezzo, per discutere al suo interno punti di forza, debolezze, opportunità e minacce del “modello organizzativo coop” sino a quel momento adottato.
I punti di forza erano caratterizzati dal fatto di assicurare un profilo elevatissimo di flessibilità e nell’abbattere sensibilmente il costo del lavoro; a prezzo però di incorrere (punti di debolezza) in fenomeni di disintermediazione, difficoltà “nella gestione organizzativa delle cooperative” (espressione ritenuta sostanzialmente confessoria della mancanza di autonomia di quelli che formalmente erano subappaltatori di IDS, in realtà organizzati direttamente da DSC) e, appunto, del “rischio Ceva” (minacce) comprensivo, secondo l’articolazione di quella vicenda giudiziaria, del rischio di contiguità ad attività delittuose.
In definitiva, secondo il convincimento espresso dal tribunale cautelare, l’adozione da parte di DSC di questo “modello coop” aveva comportato che le fatture pagate ad IDS e conseguentemente portate in detrazione nelle dichiarazioni annuali IVA dovessero essere considerate soggettivamente inesistenti, sul rilievo che la prestazione (consistente, in realtà, non in un appalto ma in una somministrazione di lavoro) veniva fornita non da IDS ma dalle cooperative finali in cui i lavoratori erano inquadrati.
Conseguentemente, l’inesistenza soggettiva delle fatture, comportando l’indetraibilità dell’IVA esposta in dichiarazione, è stata ritenuta elemento integrante, tra gli altri, la fattispecie delittuosa D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 2 (quale reato presupposto dell’incolpazione D.Lgs. n. 8 giugno 2001, n. 231, ex art. 25-quinquiesdecies) nei confronti di DSC e dei suoi manager.
Invero, la circostanza che le condizioni economiche di questi contratti fossero state per DSC particolarmente vantaggiose – come è risultato provato anche dal contenuto di talune conversazioni intercettate – consentiva di ipotizzare, sulla base di un’argomentazione non manifestamente illogica, che le evasioni fiscali e contributive fossero preordinate a consentire la pattuizione di prezzi minimi, sostenibili solo sul presupposto che le cooperative finali avrebbero poi omesso di versare l’IVA.
Pertanto, la tesi, posta a fondamento dell’inesistenza soggettiva delle fatture portate in detrazione da DSC, è sostenuta sulla base del fatto, ampiamente comprovato secondo le regole di giudizio cautelare, alla luce del quale i lavoratori, formalmente soci delle cooperative che assumevano il lavoro in subappalto da IDS, in realtà prestavano la loro attività direttamente in favore della committente, che otteneva, in tal modo, la forza lavoro necessaria, sopportando però costi notevolmente ridotti e tanto attraverso la simulazione del contratto di appalto stipulato con IDS e la sua strumentalità a realizzare una intermediazione di manodopera, in considerazione della simulazione a cascata dei subappalti correlativi e la loro riconduzione ad una somministrazione di manodopera da parte delle cooperative finali.
E’ stato infatti verificato che, se non dalla costituzione, quanto meno dagli ultimi dieci anni (tale essendo il periodo per cui la documentazione è stata conservata) IDS non offriva i propri servizi, sul mercato, ad una pluralità di interlocutori economici ma sì limitava a fungere da appaltatrice dei servizi che DSC le richiedeva, per di più erogati non con mezzi propri ma accendendo i subappalti corrispondenti.
Pertanto, IDS, che aveva quale unico cliente DSC, aveva rapporti di fatturazione unicamente con detta società.
Tuttavia, da un punto di vista formale, IDS subappaltava l’servizi alle cooperative finali, interponendosi nel rapporto tra la committente e le cooperative fornitrici della forza lavoro e, in tal modo, si prestava a mediare l’esercizio di attività tipiche del datore di lavoro da parte di DSC (dal contenuto di alcune mail sequestrate, venivano persino controllati i tempi di pausa dei lavoratori in occasione del pranzo).
DSC conseguiva perciò il risultato di avere non solo una flessibilità della forza lavoro altrimenti impensabile, ma anche il controllo del lavoratore svolgendo funzioni proprie della figura datoriale, estranee allo schema formale dell’appalto.
Il meccanismo, quindi, era stato congegnato per fruire dei vantaggi sostanziali di un rapporto di lavoro subordinato senza assumersene gli oneri e con un costo del lavoro ridotto.
A tal proposito l’ordinanza impugnata ha posto in evidenza la tendenziale stabilità dei lavoratori impiegati, attraverso l’inquadramento in cooperative (definite “serbatoi di manodopera”), cui i lavoratori erano, di volta in volta, associati non in relazione a modifiche sostanziali del rapporto di lavoro, sempre con DSC, ma per esigenze gestionali del “sistema” (ad esempio: dopo avere accumulato un debito tributario significativo, la cooperativa veniva liquidata e sostituita da un’altra, che assorbiva i medesimi lavoratori, che a propria volta mantenevano il medesimo impiego presso DSC, che rimaneva così indifferente, sul piano operativo, alla messa in liquidazione a rotazione delle sue fornitrici di manodopera).
Dal testo del provvedimento impugnato, si evince come il fumus criminis sia stato ritenuto anche sulla base di una serie di elementi indiziari dell’esistenza di questa intermediazione di manodopera, tratti dalle investigazioni svolte a cura del Nucleo di Polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano, iniziate con una serie di perquisizioni e acquisizioni documentali presso la sede e gli stabilimenti di DSC e proseguite con alcune intercettazioni telefoniche.
E’ risultato che l’ingerenza di DSC nei rapporti con i fornitori di manodopera sia emersa dall’esercizio del potere direttivo ed organizzativo del personale, di cui sono state trovate tracce sia nelle comunicazioni con IDS, sia nelle consulenze richieste alla società MA.CE.AS s.r.l. (Management Control Employment Assistence and Services: un servizio di verifica di conformità degli appalti fornito dallo studio legale C. di (OMISSIS)); dalle intromissioni nella gestione degli esuberi del personale delle cooperative; dalla modulazione di tariffe e costi della forza lavoro e dal sostegno finanziario a IDS ed al sistema delle cooperative, perché riuscissero almeno a pagare gli stipendi ai lavoratori, alla luce dello squilibrio finanziario indotto in IDS dal livello eccessivamente basso delle tariffe pagate da DSC, quello stesso livello inferiore a quanto necessario a mantenere il sistema in equilibrio che, secondo la prospettazione accusatoria convalidata dai giudici cautelari, rendeva le evasioni fiscali e contributive delle cooperative finali un presupposto necessario del sinallagma tra le parti coinvolte.
Il potere direttivo ed organizzativo sotteso a questo modello operativo è apparso, a ragione, incompatibile con lo schema legale formalmente adottato, basato su un appalto con IDS ed i subappalti che questo consorzio pattuiva con le cooperative fornitrici di manodopera, e significativo della ricorrenza effettiva di un rapporto di somministrazione di forza lavoro direttamente intercorrente tra DSC e le cooperative.
A conferma di ciò, l’esame delle comunicazioni di posta elettronica ha evidenziato l’esistenza di numerosissime mail con cui i responsabili di DSC davano specifiche disposizioni organizzative al Consorzio IDS, così incaricato di schermare il rapporto con le cooperative finali, trasferendo le disposizioni a queste ultime: in palese e continua violazione del contratto di appalto che formalmente garantiva ad IDS piena autonomia gestionale (“gestione a proprio carico e rischio”) e organizzativa (“il fornitore eseguirà i servizi con una propria organizzazione e con mezzi ed attrezzature di sua proprietà”); ed in violazione altresì degli stessi subappalti stipulati tra IDS e le cooperative, che certo non potevano contemplare l’assoggettamento delle cooperative fornitrici di forza lavoro alla ricorrente.
Altre distonie – rispetto all’esecuzione di appalti o subappalti e parimenti indizianti dell’esistenza di un’intermediazione di manodopera, incompatibile con le detrazioni IVA effettuate da DSC, così riferite a fatture soggettivamente inesistenti – sono state desunte sulla base di altri elementi valorizzati dai giudici cautelari, essendo risultata, da plurimi scambi di mail, la consapevolezza, in DSC, delle perdite addossate a IDS per l’inadeguatezza delle tariffe stabilite, che inducevano la ricorrente persino a finanziare le cooperative fornitrici di manodopera, verosimilmente per consentire il pagamento degli stipendi e mantenere operative le modalità di reperimento della forza lavoro.
Tutto ciò il tribunale cautelare ha coerentemente ritenuto esulasse dalla fisiologia dei rapporti di appalto/subappalto.
Allo stesso modo, distante dallo schema tipico dell’appalto, è apparsa l’ingerenza di DSC nell’organizzazione del personale delle cooperative, ivi compresa la determinazione delle piante organiche e la gestione degli esuberi onde prevenire frizioni con le rappresentanze sindacali.
4. Ciò posto – dipanando la questione centrale del tema cautelare relativamente alla sussistenza del fumus criminis, requisito a torto contestato dalla ricorrente – osserva la Corte come gli elementi di prova, utilizzati dal Tribunale cautelare, depongano inequivocabilmente, in presenza di un’adeguata e logica motivazione come in precedenza riassunta, nel senso di ritenere la pacifica fittizietà del contratto di appalto formalmente intercorso tra DSC e IDS e stipulato al solo fine di coprire un reale contratto di somministrazione illecita di manodopera, atteso che l’elemento fondamentale e discriminante tra i due istituti – e che rende inefficace l’accordo stipulato tra committente e appaltatore, cui consegue l’indetraibilità dell’Iva e l’indeducibilità dell’Irap (imposta che qui non rileva) – è costituito dall’esercizio del potere di direzione e di organizzazione da parte del committente.
Al netto dei rapporti, che, come subito si vedrà, non rilevano in questa sede, intercorsi tra consorzio (peraltro a rilevanza esterna come la stessa ricorrente ammette) e società cooperative consortili, occorre ribadire come la consolidata giurisprudenza di legittimità abbia individuato nel potere di direzione e di organizzazione il discrimen tra appalto di servizi e mera somministrazione di manodopera, affermando che, in tema di interposizione di manodopera, affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 29, comma 1, è necessario verificare, specie nell’ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (cd. “labour intensive”), che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d’impresa, dovendosi invece ravvisare un’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente (ex multis, Cass. civ., Sez. 6 – L, n. 12551 del 25/06/2020, Rv. 658115 – 01; nello stesso senso la giurisprudenza Europea, v. Corte Giustizia 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori, con riferimento al trasferimento di azienda o di ramo di azienda).
Gli elementi, posti a fondamento del fumus criminis1q che emergono dal testo del provvedimento impugnato, richiamano pertanto in maniera seria e concreta la simulazione del contratto d’appalto, evidenziando come il materiale utilizzato dai lavoratori forniti dal Consorzio nei magazzini della DSC appartenesse alla committenza, che vari soggetti inquadrati nella committente ( S.M.A., P.A., M.M., A.N.) avessero ripetutamente dettato disposizioni organizzative/anche rispetto alle persone da impiegare nei vari reparti, richiedendo anche report individuali sui lavoratori, manifestando il potere della committente di organizzare le risorse – costituite esclusivamente da forza lavoro secondo la proprie contingenti esigenze, ingerendosi anche nelle scelte in ordine agli esuberi del personale ed impegnandosi a contribuire finanziariamente agli esodi dei lavoratori forniti dal Consorzio.
Gli stessi soggetti inoltre avevano mostrato piena consapevolezza che il Consorzio versasse in perdita per effetto delle basse tariffe riconosciute dalla committenza, comportando ciò la irregolarità contributiva delle cooperative fornitrici della forza lavoro.
E’ stato anche accertato che IDS avesse rilevato di fatto la manodopera già impiegata nei depositi della DSC, abdicando quindi persino alla scelta del personale, subentrando in precedenti appalti e con l’applicazione delle tariffe già concordate con i vecchi fornitori e mai adeguate.
La contraria opinione manifestata dalla ricorrente, per le ragioni appena espresse, è completamente destituita di fondamento e, comunque, è fondata su censure meramente fattuali tendenti a una diversa ricostruzione del fatto e, perciò, non consentite in sede di giudizio di legittimità, in specie nei confronti di provvedimenti cautelari reali.
Ed infatti, secondo il logico convincimento dei giudici cautelari, tale fraudolenta operazione aveva comportato, da un lato, l’applicazione di tariffe “fuori mercato”, che i fornitori della manodopera avevano potuto garantire alla DSC solo attraverso l’omesso versamento delle imposte e/o dei contributi previdenziali, e, dall’altro, la possibilità per la committente di ricorrere alla forza lavoro con vantaggi in tema di flessibilità di gestione e di costi, che l’assunzione diretta delle maestranze non avrebbe consentito, nonché di utilizzare le fatture emesse dal Consorzio ai fini IVA, con ciò realizzando un’operazione riconducibile anche alla fattispecie dell’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, consentendo a DSC di realizzare una evasione dell’imposta sul valore aggiunto.
Infatti, l’IVA dovuta da IDS è stata neutralizzata dall’IVA a credito per le fatture emesse dalle cooperative e società fornitrici della manodopera, le quali in gran parte non avevano versato l’IVA dovuta sulle fatture emesse.
DSC, dal canto suo, ha portato in detrazione l’IVA addebitata al Consorzio per un importo complessivo negli anni dal (OMISSIS) al (OMISSIS) pari ad Euro 20.748.948,41.
A questo punto, in presenza di chiari vantaggi fiscali derivanti dall’utilizzo di un contratto di appalto di servizi stipulato per “mascherare” una somministrazione di manodopera contra legem, sfruttando la possibilità di detrarre indebitamente l’Iva in relazione alle prestazioni fatturate dall’appaltatore, il fatto che la ricorrente dubiti dell’esistenza di vantaggi fiscali ossia del conseguimento di un ingiusto profitto, realizzato per effetto della condotta illecita contestata, appare francamente un fuor d’opera, conseguendo da ciò, come sarà anche più chiaro in seguito, l’infondatezza del primo motivo e, sin d’ora, la manifesta infondatezza del quarto motivo di ricorso.
5. La corretta applicazione dell’Iva nell’interposizione di manodopera si ha solo quando, in conformità alla normativa che regola la materia, i rapporti tra il committente e l’agenzia interinale/appaltatore/datore di lavoro terzo esiste una “reale” interposizione di manodopera.
In caso contrario, ossia in presenza, come nella specie, di un comportamento elusivo nell’interposizione di manodopera, l’Iva è applicata indebitamente e, dunque, non è detraibile.
Tale principio è stato affermato più volte dalla Sezione tributaria della Corte di cassazione, la quale ha chiarito che, in caso di accertamento del carattere fraudolento dell’intermediazione di manodopera, l’IVA che il committente (nella specie) assume di avere pagato al preteso appaltatore per l’operazione soggettivamente inesistente – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell’operazione negoziale – non è detraibile ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, proprio per il fatto che l’alterazione del meccanismo di riscossione dell’imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell’ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell’imposta sulle operazioni passive dell’imprenditore o del professionista (Cass. civ., Sez. 5, n. 16852 del 20/05/2013, non mass.; Cass. civ., Sez. 5, n. 10475 del 11/12/2013, dep. 2014, non mass.; Cass. civ., Sez. 5, n. 17805 del 18/07/(OMISSIS), dep. (OMISSIS), non mass.).
A questo proposito, la giurisprudenza di legittimità ha precisato come nell’interposizione di manodopera, se vi è illiceità dell’oggetto e se la natura del contratto tra committente e datore di lavoro terzo è fittizia, il committente, non solo non potrà detrarre l’Iva, ma avrà anche l’obbligo di eseguire degli adempimenti fiscali in qualità di sostituto d’imposta.
Nel pervenire a tali conclusioni, è stato affermato che, in tema di divieto d’intermediazione di manodopera, in caso di somministrazione irregolare, schermata da un contratto di appalto di servizi, va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, non essendo configurabile una prestazione dell’appaltatore imponibile ai fini IVA (Cass. civ., Sez. 5, n. 34876 del 17/11/2021, Rv. 663136 – 01; Cass. civ., Sez. 5, n. 31720 del 07/12/2018, Rv. 651778 – 01; Cass. civ., Sez. 5, n. 22020 del 17/10/2014, Rv. 632765 – 01).
In questa materia, infatti, non sussiste, nel caso di appalto non genuino, alcun valido contratto di appalto e il rapporto di somministrazione di lavoro, apparentemente instaurato con l’appaltatrice, è nullo con conseguente impossibilità di detrarre l’IVA da parte della società contribuente (Sez. 5, n. 12807 del 26/06/2020, Rv. 658043 – 01).
Sul versante della giurisprudenza penale – sul presupposto dell’indetraibilità dell’Iva nei casi di illecita somministrazione di manodopera dissimulata da fittizi contratti di appalto e servizi – non si è mai dubitato che l’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anziché relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, non incide sulla configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2 il quale, nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo (Sez. 3, n. 4236 del 18/10/2018, dep. 2019, Di Napoli, Rv. 27569201; Sez. 3, n. 30874 del 02/03/2018, Hugony; Rv. 273728), con la conseguenza che il delitto di frode fiscale D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 2 è astrattamente configurabile nel caso di intermediazione illegale di manodopera, stante la diversità tra il soggetto emittente la fattura e quello che ha fornito la prestazione.
Da ciò discende pure la configurabilità del concorso di reati fra la contravvenzione di intermediazione illegale di mano d’opera (D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 18) ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera (Sez. 3, n. 20901 del 26/06/2020, Montevecchi, Rv. 279509 – 02; Sez. 3, n. 24540 del 20/03/2013, De Momi, Rv. 256424).
Significativamente, in analogia con la presente vicenda processuale, Sez. 3, n. 31202 del 14/03/2019, Soave, non mass., ha riconosciuto corretta la qualificazione nei termini di configurabilità del delitto di frode fiscale nel caso della società utilizzatrice di fatture che, avendo quale oggetto sociale attività logistica nel settore dell’alta moda per noti marchi internazionali, aveva appaltato i servizi di facchinaggio e le prestazioni accessorie (quali pulizia, etichettatura dei capi, confezionamento ecc.) a vari consorzi che, a loro volta, avevano assegnato tali attività alle cooperative facenti parte dei primi che operavano nei magazzini della società utilizzatrice presenti nel territorio nazionale. Contrariamente al dato puramente formale, tra la società utilizzatrice e le emittenti non erano stati instaurati appalti genuini, avendo la società fatto ricorso, in maniera sistematica, a moduli di gestione di tali rapporti in fase esecutiva che, di fatto, integravano delle ipotesi di somministrazione (illegale) di manodopera da parte delle cooperative, per il tramite del consorzio che si interponeva fittiziamente in tale rapporto. Tale meccanismo, dunque, aveva permesso alla società utilizzatrice di impiegare la manodopera messa a disposizione delle cooperative instaurando di fatto – attraverso l’elusione delle norme imperative in materia giuslavoristica – un rapporto in tutto assimilabile a quello di lavoro dipendente; con la conseguenza, sotto il profilo fiscale, che le fatture emesse dalle società consorziate erano da qualificare come oggettivamente inesistenti “in quanto, pur essendo state emesse avuto riguardo ad una prestazione “reale” – e cioè quella collegata alla somministrazione del lavoro – nel caso di specie, non è prevista ab origine la fatturazione (in quanto vietata ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 18), con la conseguenza che la società appaltante avrebbe inserito le relative fatture in contabilità, facendo figurare elementi passivi fittizi e detraendo IVA per tali operazioni”.
Più in generale, sul tema dell’indetraibilità dell’Iva, la giurisprudenza penale di legittimità (ex multis, Sez. 3, n. 42994 del 07/07/2015, De Angelis, in motiv.), in conformità ai principi affermati dalla giurisprudenza tributaria, ha chiarito che, anche nel caso di emissione della fattura per operazioni soggettivamente inesistenti, viene a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione dell’Iva, costituita dall’effettuazione di un’operazione, giacché questa (riferendosi il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, all’imposta relativa alle “operazioni effettuate”) deve ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione.
Come è stato reiteratamente precisato dalla Sezione tributaria di questa Corte (ex multis, Sez. 5, n. 23626 del 11/11/2011) la previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7 – secondo la quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura – è esplicita nel senso di imporre il versamento dell’imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione e’, infatti, letta nel senso che il tributo viene ad essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva “a valle” ed Iva “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19. E ciò per il rilievo che il versamento dell’Iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema Iva.
Il diritto alla detrazione dell’IVA non può infatti prescindere dalla regolarità delle scritture contabili ed in particolare della fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa.
Si tratta di principi che si applicano sia alle false fatturazioni emesse per operazioni oggettivamente inesistenti che a quelle emesse per operazioni solo soggettivamente inesistenti (quindi ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa perciò anche l’ipotesi di inesistenza soggettiva) e, dunque, anche con specifico riferimento alla fattispecie in esame.
Su questa tematica che attiene al tema – più volte affrontato dalla Corte di legittimità – dell’estensione e dei limiti del diritto del contribuente alla detrazione dell’imposta, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17 e 19, anche la Corte di Giustizia Europea ha, difatti, più volte affermato che il beneficio della detrazione non è accordabile, sia per il diritto comunitario che per il diritto interno che ad esso si conforma, qualora sia dimostrato che lo stesso beneficio sia invocato dal contribuente fraudolentemente o abusivamente. Secondo la Corte Europea, invero, il diritto alla detrazione, previsto dagli artt. 167 e ss. della direttiva 2006/112, e costituente parte integrante del meccanismo di traslazione dell’imposta proprio dell’IVA in ambito comunitario, può essere negato solo quando risulti dimostrato da parte dell’amministrazione finanziaria, “alla luce di elementi oggettivi” che il soggetto passivo al quale siano stati forniti i beni o i servizi, posti a fondamento del diritto alla detrazione, “sapeva o avrebbe dovuto sapere che tale operazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore a monte”. E’ di tutta evidenza, infatti, che in tale evenienza il soggetto che intende fruire della detrazione deve essere considerato, ai fini della direttiva 2006/112, come “partecipante a tale evasione”, laddove di certo non lo sarebbe colui che ignorasse – senza sua colpa – che il fornitore effettivo della merce o dei servizi ricevuti non era il fatturante, ma un altro soggetto.
Orbene, quanto alla consapevolezza da parte di DSC del meccanismo illecito realizzato per abbattere i costi di impresa e recuperare, usufruendo della detrazione, indebitamente l’Iva, l’ordinanza impugnata, come in precedenza spiegato, ha dato conto – con motivazione adeguata, priva di vizi di manifesta illogicità e, pertanto, insuscettibile di sindacato in sede di giudizio di legittimità del fatto che DSC fosse perfettamente a conoscenza, per averne innescato la causa, che IDS versasse in perdita per effetto delle basse tariffe riconosciute dalla committenza e che ciò comportasse, a cascata, la irregolarità contributiva e fiscale delle cooperative fornitrici della forza lavoro (abdicazione da parte di IDS persino alla scelta del personale; applicazione di tariffe “fuori mercato” con la conseguenza che i fornitori della manodopera avevano potuto garantire le prestazioni solo attraverso l’omesso versamento delle imposte e/o dei contributi previdenziali e con l’ulteriore conseguente possibilità per la committente di ricorrere alla forza lavoro con vantaggi in tema di flessibilità di gestione e di costi che l’assunzione diretta delle maestranze non avrebbe consentito, nonché di utilizzare le fatture emesse dal Consorzio ai fini IVA, con ciò realizzando un’operazione riconducibile anche alla fattispecie dell’utilizzo di fatture inesistenti che ha consentito a DSC di realizzare una evasione dell’imposta sul valore aggiunto).
Nel caso in esame, come già anticipato, l’IVA dovuta dal Consorzio Industria dei Servizi è stata infatti neutralizzata dall’IVA a credito per le fatture emesse dalle 19 cooperative e società fornitrici della manodopera, le quali, in gran parte, non hanno versato l’IVA dovuta sulle fatture emesse. DSC, dal canto suo, ha portato in detrazione l’IVA addebitata al Consorzio per un importo complessivo negli anni dal (OMISSIS) al (OMISSIS) pari ad Euro 20.748.948,41.
Correttamente pertanto i giudici cautelari, nell’applicare i principi di diritto declinati dalla giurisprudenza di legittimità, hanno stimato che gli elementi sopra riassunti inducessero a ritenere ipotizzabile l’esistenza di una struttura fraudolenta attraverso il ricorso ad appalti diretti a celare una mera somministrazione di manodopera, con la conseguenza che le operazioni oggetto di fatturazione da parte del Consorzio Industria dei Servizi dovevano a tutti gli effetti ritenersi giuridicamente inesistenti, così da sussumere le condotte di utilizzazione di tali fatture da parte di DSC nella fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 comprensiva anche della inesistenza soggettiva, nonostante la società avesse effettivamente sopportato i costi per le prestazioni fatturate (Sez. 3, n. 20901 del 26/06/2020, cit.; Sez. 3, n. 24540 del 20/03/2013, cit.).
Il primo motivo di ricorso e’, anche per queste ragioni, infondato nel suo complesso.
6. Tenuto conto delle risultanze processuali, che si iscrivono nel solco di un procedimento incidentale, con la conseguenza che va fatto salvo il novum che dovesse scaturire dal normale regime della progressione processuale, osserva la Corte che – in presenza di una comprovata somministrazione irregolare di manodopera, schermata da un contratto di appalto di servizi, e sgombrato anche il campo dalle questioni, del tutto irrilevanti, circa i rapporti tra consorzio e consorziate (secondo motivo) e dalle questioni manifestamente infondate o non consentite tendenti a contestare il comprovato meccanismo fraudolento adottato dalla ricorrente (terzo motivo) – è possibile ora stimare l’infondatezza anche dell’ulteriore rilievo sollevato dalla società ricorrente, sotto diversi profili delineati con il primo motivo di ricorso, circa la mancanza di tipicità del fatto (per l’assenza dell’elemento oggettivo del reato, anche per effetto della mancata integrazione di talune fattispecie definitorie D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 1 e dell’elemento soggettivo nonché per l’assenza di qualsiasi vantaggio per la società ricorrente).
Nel caso di specie, dal testo dell’ordinanza impugnata, risulta, come in precedenza anticipato, che le prestazioni indicate nelle fatture si riferissero, ma solo figurativamente, all’appalto commesso da DSC a IDS.
Nella realtà, eludendo i divieti di legge, le parti erano ricorse a una somministrazione (illecita) di manodopera, in conseguenza della quale i fornitori della forza lavoro (le cooperative consorziate con IDS) avevano omesso, tra l’altro, il versamento dell’IVA, in un contesto fattuale in cui, dallo scrutinio delle mail acquisite dalla Guardia di Finanza e dalle intercettazioni telefoniche disposte, era – emerso che il materiale, utilizzato dai lavoratori forniti (apparentemente) da IDS, apparteneva alla committenza, la quale – attraverso i suoi organi, perfettamente consapevoli che IDS versava in perdita per effetto delle basse tariffe riconosciute dalla committenza stessa e che ciò comportava la irregolarità contributiva e fiscale delle cooperative fornitrici della forza lavoro – dettava ripetutamente disposizioni organizzative nei confronti del personale, richiedendo anche report individuali sui lavoratori, manifestando il potere direttivo nell’organizzare le risorse – costituite esclusivamente da forza lavoro – secondo le proprie contingenti esigenze, ingerendosi anche nelle scelte in ordine agli esuberi del personale ed impegnandosi a contribuire finanziariamente agli esodi dei lavoratori forniti dal Consorzio.
Orbene, in tale ipotesi, i costi – sostenuti per effetto di una comprovata condotta illecita rappresentata dall’intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro – risultano essere stati utilizzati di fatto al fine di abbattere l’imponibile.
Pertanto, gli elementi passivi fittizi – come definiti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, comma 1, lett. b), che hanno determinato il vantaggio fiscale indebito, integrando la condotta prevista e punita dall’art. 2, medesimo decreto – altro non sono che le voci di costo che hanno partecipato alla quantificazione del reddito imponibile confluito nella dichiarazione per essersi la società ricorrente avvalsa di fatture per operazioni inesistenti, indicando le stesse, nella componente espressa in cifra e perciò concorrente alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti, quali elementi passivi fittizi nella dichiarazione IVA, con la sottolineatura che, siccome alla dichiarazione non vengono allegati documenti probatori, si avvale della documentazione in questione chi registra nelle scritture contabili obbligatorie tali documenti o comunque li detiene a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
L’errore di fondo in cui incorre la società ricorrente sta nell’escludere la fittizietà dell’elemento passivo e nel non considerare che le operazioni sottostanti sarebbero in ogni caso “soggettivamente” inesistenti, perché al più potrebbero riferirsi a prestazioni lavorative svolte direttamente dai singoli lavoratori, i quali avrebbero il diritto di chiedere al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo come prevede il D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 38 e/o D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 3-bis, stante l’invalidità dell’originario rapporto di somministrazione.
Al cospetto di tali elementi, risultano, all’evidenza, integrati tutti gli elementi costitutivi del reato provvisoriamente contestato.
Ne’ vale richiamare la sentenza C-94/19 “San Domenico Vetraria SpA”, con cui la Corte di Giustizia si è pronunciata in merito al trattamento IVA da attribuire al distacco o prestito di personale.
Nel caso in esame, la ricostruzione fattuale dei giudici cautelari, come desunta dalle risultanze investigative, che hanno posto in luce la fraudolenza o, comunque, la natura evasiva dell’operazione, esclude che le parti abbiano fatto ricorso all’istituto del distacco che “si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa” (D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30). Il distacco, per potersi configurare, esige perciò che il distaccante persegua un interesse proprio, ossia un interesse produttivo distinto, rispetto al distaccatario, come il buon andamento di una società controllata – o partecipata – ovvero le esigenze formative del proprio personale.
Nel caso in esame, come più volte precisato, si è invece al cospetto di un appalto non genuino, attraverso il ricorso ad una somministrazione illecita di manodopera.
Ciò provoca in genere ed ha provocato nella specie una serie di anomalie, avendo determinato una concorrenza sleale tra le imprese, per la conseguente alterazione delle regole del mercato, avendo comportato lo sfruttamento dei lavoratori e avendo prodotto evasioni fiscali e contributive, con particolare riferimento all’evasione Iva.
Stando alle risultanze investigative, come compendiate nell’ordinanza impugnata, si è cioè realizzato uno schema in forza del quale il committente, attraverso un appalto non genuino, ha azionato il diritto alla detrazione dell’Iva dopo aver articolato un meccanismo in forza del quale, attraverso il pagamento di fatture per “finti” appalti di opere e servizi, ha “scaricato” l’Iva da un consorzio che, a sua volta, ha “scaricato” il tributo dalle cooperative consorziate che l’avrebbero dovuto versare allo Stato ed invece, dopo qualche anno, hanno cessato l’attività, rimanendo in debito verso l’erario, che è risultato impedito nel recupero dell’imposta, con conseguente accollo dell’evasione fiscale alla collettività.
Anche alla luce di ciò, deve pertanto ritenersi che ricorrono, per quanto qui interessa, tutti i presupposti fattuali e giuridici della ipotizzata responsabilità della società ricorrente ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25-quinquiesdecies risultando infondato il primo motivo di ricorso e manifestamente infondati o non consentiti gli altri.
7. Il motivo aggiunto è inammissibile perché nuovo, non essendo stata la questione previamente sottoposta all’esame del tribunale cautelare.
A questo proposito, non rileva la circostanza che la sentenza delle Sezioni unite Ellade sia successiva alla pubblicazione dell’ordinanza impugnata perché, trattandosi di una questione di diritto, che involge necessariamente accertamenti di fatto, essa andava sollevata innanzi al tribunale del riesame, quale giudice del merito.
La giurisprudenza di legittimità è infatti ferma nel ritenere che, in tema di misure cautelari, non è possibile prospettare in sede di legittimità motivi di censura non sollevati innanzi al tribunale del riesame, ove essi non siano rilevabili d’ufficio (ex multis, Sez. 2, n. 11027 del 20/01/2016, Iuliucci, Rv. 266226 – 01).
La questione potrà essere comunque sollevata attraverso la richiesta di revoca del sequestro, restandone impregiudicato l’esito, in quanto occorrerà stabilire se i principi affermati dalle Sezioni Unite Ellade siano applicabili nei casi di misure ablative a contenuto prettamente sanzionatorio, come la confisca tributaria, obbligatoriamente applicabili a seguito di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti.
8. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso vada rigettato, con conseguente onere per la società ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2022

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