La deducibilità dei costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti
Con sentenza n. 359/38/2011, depositata in data 18.7.2011, non notificata, la Commissione tributaria regionale del Lazio, rigettato l’appello incidentale dei contribuenti, accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di Auto s.n.c. di C.A. e di D.S.C., dei soci C., D.S. e O.G. avverso la sentenza n. 183/2/2010 della Commissione tributaria provinciale di Roma che aveva accolto il ricorso proposto dai contribuenti avverso tre avvisi di accertamento e una cartella di pagamento relativi agli anni di imposta 2002, 2003 e 2004 con i quali l’Ufficio, previo p.v.c. della Guardia di Finanza, aveva proceduto alla rideterminazione del maggior reddito imponibile e della maggiore Iva dovuta in relazione ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti relative all’importazione intracomunitaria di autoveicoli per il tramite di società “cartiere” fittiziamente interposte all’effettivo cedente comunitario, sul presupposto che fosse provata la fittizietà dell’operazione e la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una frode all’IVA.
Avverso tale statuizione Auto s.n.c. di C.A. e di D.S.C. nonchè O.G. propongono ricorso per cassazione affidato a sei motivi, illustrati con memoria.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 63 del 1972, art. 54, dell’art. 2727 cc. e del D.P.R. n. 600 del 1972, art. 39.
3. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.c., n. 5, insufficiente motivazione della sentenza impugnata circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
4. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono insufficiente motivazione della sentenza impugnata circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e omessa motivazione in ordine al rigetto dell’appello incidentale spiegato, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
Con i motivi i ricorrenti lamentano che la CTR aveva erroneamente ritenuto che non fosse onere dell’amministrazione provare, in capo al contribuente, la partecipazione o almeno la consapevolezza di beneficiare degli effetti di una c.d. frode carosello e che il giudice aveva presunto la responsabilità dei ricorrenti in totale assenza di prova o deduzione di indizi dai quali inferire una eventuale responsabilità dei contribuenti e negato il diritto alla detrazione Iva senza motivare adeguatamente sul punto.
5. Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta. Esse non sono fondate.
Questa Corte, alla luce della giurisprudenza comunitaria, ha statuito il seguente principio di diritto: “In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (così Sez. 5, 20 aprile 2018, n. 9851, nonchè Sez. 5, 24 agosto 2018, n. 21104; Sez. 5, 9 settembre 2016, n. 17818, secondo la quale, con riferimento all’onere probatorio gravante sul contribuente, non è sufficiente “la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti”, ovvero, quanto alla regolarità delle scritture ed alle evidenze contabili del pagamento, “di dati e circostanze facilmente falsificabili”: Sez. 6-5, 15 maggio 2018, n. 11873).
Va in particolare precisato che (Cass., 10120/2017; Cass., 24426/2013) “quando l’operazione soggettivamente inesistente è di tipo triangolare, poco complessa e caratterizzata dalla interposizione fittizia di un soggetto terzo tra il cedente comunitario ed il cessionario italiano, l’onere probatorio a carico della Amministrazione finanziaria, sulla consapevolezza da parte del cessionario che il corrispettivo della cessione sia versato al soggetto terzo non legittimato alla rivalsa nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta, è soddisfatto dalla dimostrazione che l’interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata alla prestazione fatturata, mentre spetta al contribuente – cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce, ritenendo incolpevolmente che essa fosse realmente fornita dalla persona interposta”.
La CTR ha fatto corretta applicazione di tali regole motivando adeguatamente sul punto.
In particolare la CTR, sulla base degli elementi indiziari forniti dall’amministrazione ha affermato che “la società contribuente non espone alcun motivato giudizio di insufficienza degli indizi offerti dall’amministrazione, limitandosi ad affermazioni estremamente generiche, che non rivelano la natura specifica dei singoli indizi esaminati nè le ragioni della ritenuta insufficienza; inoltre erronee, in quanto si riferiscono ad un carattere di “univocità” che la legge non pretende, ammettendo la valenza indiziaria dei fatti noti dai quali il giudice possa risalire ai fatti da dimostrare, come la contestata abusività della detrazione di imposta, secondo un criterio non necessariamente di certezza, ma di ragionevole probabilità. Si deve quindi affermare che, quando l’atto impositivo sia fondato su adeguati indizi, desunti da dati e notizie legittimamente acquisiti, idonei salvo prova contraria a carico del contribuente – a far comprendere l’esistenza di una frode cui parteciperebbe, o da cui comunque trarrebbe consapevole vantaggio con danno dell’erario, il medesimo contribuente, la regolarità dei dati contabili e bancari non è, logicamente, circostanza idonea a contrastare la pretesa fiscale, che non si basa sulla tenuta corretta o difettosa della contabilità, bensì sulla presunzione di partecipazione alla frode carosello o di utilizzazione consapevole dei proventi di questa; caso in cui tutte le scritture e le fatture e le operazioni bancarie possono risultare anche perfettamente regolari sotto il profilo formale, senza che dal puro e semplice riscontro di tale regolarità formale possa desumersi la prova di un’intenzione diversa da quella fraudolenta; intenzione realizzata attraverso un meccanismo di detrazione indebita di imposta….”.
6. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento alla ritenuta indeducibilità dei costi.
7. Con il sesto motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione della L. n. 44 del 2012, art. 8″, in quanto con il D.L. n. 16 del 2012, convertito in L. n. 44 del 2012, è stato modificato il regime fiscale sulla deducibilità dei costi per fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti. Poichè i beni acquistati non sono stati utilizzati “direttamente” per commettere il reato, ma per essere commercializzati, non è più sufficiente, per escludere la deducibilità dei costi il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da soggetto diverso dall’effettivo venditore.
I motivi suscettibili di trattazione congiunta sono fondati.
7.1. Invero, la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, ha chiarito, dopo iniziali incertezze giurisprudenziali sul punto, che i proventi da attività illecita dovevano essere assoggettati a tassazione. Infatti, per questa Corte, a Sezioni unite (Cass. Pen, sez. un., 7 marzo 1994, n. 2798), i proventi del reato non costituiscono “reddito”, sicchè le norme che al “reddito” o ai “redditi” collegano il prelievo fiscale non sono ad essi applicabili. Tuttavia quando si tratti di cose ricomprese nell’ambito di operatività dell’istituto della confisca facoltativa, le stesse, qualora la confisca non sia disposta o perchè il giudice si è avvalso del potere discrezionale spettantegli al riguardo ovvero per l’esistenza di un divieto posto dalla legge (come accade nell’ipotesi di patteggiamento), perdono il carattere di illiceità ed in quel momento diventano ricchezza lecita aggredibile dal fisco, con le conseguenti implicazioni, quali, ad esempio, la necessità di dichiararla e di rispettare le disposizioni sulla “trasparenza”, previste dal D.L. n. 429 del 1982, art. 1, comma 6, convertito in L. n. 516 del 1982. Con la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, si è previsto che “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi,…. devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”. Successivamente, sempre con riguardo ai proventi da attività illecita, si è chiarito che gli stessi sono, comunque, considerati “redditi diversi”. Sul punto il D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 34 bis, ha stabilito che “in deroga alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, la disposizione di cui alla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi… sono comunque considerati come redditi diversi”.
7.2. In relazione, poi, alla deducibilità dei costi da attività illecita, la L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 2 comma 8, ha inserito la L. n. 537 del 1993, comma 4 bis dopo il comma 4, in base al quale “nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi,…. non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”. Pertanto, con la L. n. 289 del 2002 si è prevista la non deducibilità di costi o spese riconducibili a “reati”.
7.3. Il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, sostituendo la L. n. 537 del 1993, comma 4 bis, ha, invece reso possibile, a determinate condizioni, la deducibilità di costi collegati a reati, con esclusione però dei costi e delle spese “direttamente utilizzati” per il compimento di attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale. In particolare, la L. n. 537 del 1993, nuovo art. 14, comma 4 bis, dopo il D.L. n. 16 del 2012, prevede che “nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi…. non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 cod. cit. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p.. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 cod. cit. fondata sulla sussistenza i di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. Al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 2, si prevede che “ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese e/o altri componenti negativi”. Sul punto, per questa Corte, in tema di imposte sui redditi, e con riguardo ad operazioni oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente l’onere di provare la fittizietà di componenti positivi che, ai sensi del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, ove direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Cass., 20 novembre 2013, n. 25967). Il D.L. N. 16 del 2012, art. 8, comma 3, poi, detta la disciplina transitoria, con effetto retroattivo delle norme se più favorevoli al contribuente (” le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, comma 4 bis e art. 14, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che provvedimenti emessi in base al citato comma 4 bis previgente non si siano resi definitivi”), con rilievo anche d’ufficio da parte del giudice (Cass., 661/2014; Cass., 26461/2014; Cass., 19617/2018).
7.4. Pertanto, l’indeducibilità sostanziale dei costi opera solo per i costi inerenti l’acquisto di beni e servizi direttamente utilizzati per la commissione di delitti non colposi; sicchè non è sufficiente per escludere la deducibilità dei costi che gli stessi afferiscano genericamente alla commissione del reato doloso, ma è necessario che siano stati sopportati per acquisire beni direttamente utilizzati per la commissione di reati dolosi. Il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, non concerne i costi relativi ad operazioni in tutto o in parte inesistenti, mentre trova applicazione per i costi relativi a fatture soggettivamente inesistenti, in quanto in tale seconda ipotesi il costo riportato in fattura è effettivo e, di regola, non è utilizzato per la commissione di alcun reato.
7.5. Pertanto, per questa Corte, a norma della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, (conv. in L. n. 44 del 2012), poichè nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi a siffatte operazioni anche ove ricorrano i presupposti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24426/2013; Cass. 13803/2014; Cass. 10167/2012; Cass. 12503/2013; Cass.25249/2016; Cass. 16528/2018). Ne consegue, dunque, che ai soggetti coinvolti nelle frodi carosello non è più contestabile, in relazione alla novella, la deducibilità dei costi, in quanto i beni acquistati non sono stati utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, ma, salvo prova contraria, per essere commercializzati e venduti (Cass., 27566/2018).
Nel caso in esame, poichè è pacifico che le operazioni sono state effettivamente compiute, sicchè non ricorre l’ipotesi delle operazioni oggettivamente inesistenti, risulta del tutto irrilevante, limitatamente ai fini delle imposte dirette, l’accertamento della consapevolezza o meno della frode da parte della Auto snc.
La sentenza impugnata, che è stata pronunciata prima della modifica legislativa deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione, che si dovrà attenere al seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi e di Irap ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis, come modificato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, convertito in L. n. 44 del 2012, con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti – inseriti o meno in una frode carosello per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e determinabilità oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo”, e che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
La Corte accoglie il quinto e il sesto motivo di ricorso, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla CTR del Lazio in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2020