Particolare tenuità del fatto: rilevabile d’ufficio in sede di legittimità anche se non dedotta in appello
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 17 ottobre 2019 – 20 febbraio 2020, n. 6566
Presidente Piccialli – Relatore Esposito
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano del 2 ottobre 2017, con cui V.F. era stata condannata alla pena di Euro duecento di multa in relazione ai reati di cui all’art. 590 c.p., commi 2 e 3, art. 583 c.p., comma 1, perché, in qualità di datore di lavoro della OMT s.r.l. per colpa generica e specifica causava a L.L. , operaio meccanico, una lesione personale grave consistente in amputazione netta a livello dell’articolazione interfalangea distale terzo dito mano sinistra, dalla quale derivava un indebolimento permanente di un organo; in particolare, consentiva che il L. , intento a tagliare pezzi metallici mediante l’impiego di una sega a nastro orizzontale, nel raccogliere manualmente degli sfridi di lavorazione urtava con la mano sinistra la lama in movimento, in un tratto non adeguatamente protetto, cagionandosi la lesione sopra meglio descritta – per colpa specifica consistita nel non aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi alle disposizioni normative, in particolare nell’aver predisposto una sega a nastro orizzontale priva dei requisiti di protezione e sicurezza indicati ai punti 1.3.8.1. e 1.4.1. del D.Lgs. n. 17 del 2010 (D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 70, comma 1).
Il L. risultava essere stato fornito di dispositivi di sicurezza individuale nonché adeguatamente formato ed informato dei rischi di utilizzo del macchinario. Mentre stava lavorando su una sega a nastro per metalli, si accorgeva che si era accumulata una limatura, per cui, indossati i guanti, prendeva con le mani la limaglia accumulata sul lato destro della macchina ed urtava con la mano sinistra la lama in movimento, procurandosi l’infortunio.
Secondo la Corte di merito, la particolare gravità del fatto non consentiva di ritenere astrattamente configurabili i presupposti per la non punibilità; era stata applicata la solo pena pecuniaria, prevedendo quale pena base il massimo edittale. Il risarcimento del danno, in ragione del contenuto della transazione e del concreto importo irrogato, poteva essere valutato ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche ma non dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6.
2. La V. , a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo quattro motivi di impugnazione.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’asserita violazione di regole cautelaci.
Si deduce che la Corte di appello, pur tenendo conto della cornice normativa della vicenda, in riferimento al D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 70, commi 1 e 2, aveva erroneamente ritenuto insussistenti le condizioni che avrebbero consentito la non completa segregazione della sega a nastro. In presenza di “effettive esigenze della lavorazione” (All. V, capitolo 6.5), infatti, il datore di lavoro poteva utilizzare dispositivi non completamente riparati, adottando in compenso ulteriori accorgimenti antinfortunistici.
Tale possibilità era in linea col principio generale di cui ai punti 1.3.8.1 e 1.4.1 dell’All. 1 al D.Lgs. n. 17 del 2010, in base ai quali occorreva tener conto delle esigenze del ciclo produttivo. D’altronde, in base al par. 5.5.2, comma 2, dell’All. V al D.Lgs. n. 81 del 2008, il nastro non doveva essere protetto nel tratto strettamente necessario per la lavorazione.
La sega, prodotta da terzi, era dotata di certificazione CE, in conformità alle normative Europee in tema di tutela dei lavoratori e il suo collaudo si era dimostrato rispettoso di tali disposizioni. La macchina era stata costruita con un tratto di lama non riparato, per cui, già a livello di costruzione, l’incompleta segregazione delle parti mobili era compatibile con la normativa antinfortunistica e l’impostazione originaria doveva essere ritenuta funzionale alle esigenze di lavorazione.
Per segregare interamente la sega, la OMT avrebbe dovuto modificare arbitrariamente le caratteristiche strutturali della macchina considerate adeguate ai requisiti di sicurezza richiesti dalla legge in sede di rilascio di certificazione CE. Risultando possibile l’uso di una macchina non integralmente riparata, la responsabilità non doveva essere fondata sulla mancata completa segregazione della lama, bensì sull’adeguatezza delle misure ulteriori per ridurre al minimo il pericolo.
Nel DVR, infatti, erano state specificate le precauzioni da adottare (uso di guanti, di attrezzi per la rimozione dei trucioli e obbligo di rimuoverli a macchina ferma e la formazione ed informazione sul rischio specifico). Le istruzioni erano contenute in un cartello attaccato alla macchina. Nessun elemento acquisito dimostrava che col dispositivo completamente segregato la capacità produttiva sarebbe rimasta la medesima.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione per errata applicazione dell’art. 40 c.p., e art. 41 c.p., comma 2.
Si osserva che la condotta del lavoratore rivestiva i caratteri dell’abnormità o dell’esorbitanza.
La V. aveva correttamente individuato l’area di rischio ed aveva adottato misure efficaci per contenerlo, espressamente individuate e codificate nel DVR. Il L. aveva violato le procedure di sicurezza predisposte dall’azienda ponendo in essere una condotta esorbitante non solo in astratto ma anche in concreto, per cui il suo comportamento aveva interrotto il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’infortunio, ponendosi come causa da sé sola a determinare l’evento.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione per mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p..
Si rileva che il richiamo nella sentenza impugnata alla gravità del fatto era del tutto generico e che il Tribunale non si era espresso sulla possibile applicazione dell’istituto. I giudici di merito non indicavano aspetti della condotta della V. rivelatori di una peculiare lesività.
2.4. Violazione dell’art. 62 c.p., n. 6.
Si sostiene che l’attenuante in questione non era stata riconosciuta nonostante il risarcimento integrale del danno anteriormente al giudizio.
Considerato in diritto
1. La sentenza impugnata va annullata per essere il reato non punibile per particolare tenuità del fatto.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Nell’attribuire profili di colpa specifica al datore di lavoro la sentenza impugnata si colloca nel solco della richiamata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l’evento dannoso sia provocato dall’inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, sul quale grava l’obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare tale macchina e di adottare nell’impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori; a detta regola può farsi eccezione nella sola ipotesi in cui l’accertamento di un elemento di pericolo sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio di progettazione, che non consentano di apprezzarne la sussistenza con l’ordinaria diligenza (Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018, dep. 2019, Motta Pelli s.r.l., Rv. 275114, in fattispecie relativa a macchinario privo di “cader” di protezione, in cui la Corte ha ritenuto che il pericolo era evidentemente riconoscibile con l’ordinaria diligenza, dovendo gli organi in movimento dei macchinari essere sempre segregati per evitare contatti pericolosi con la persona del lavoratore; Sez. 4, n. 26247 del 30/05/2013, Magrini, Rv. 256948, che ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro, in ordine al reato di cui all’art. 590 c.p., comma 3, per avere messo a disposizione del lavoratore un macchinario, specificamente una pressa, privo dei necessari presidi di sicurezza, in conseguenza della non attenta verifica dei requisiti di legge e della mancata valutazione in progress delle carenze del predetto macchinario, anche attraverso una adeguata azione di manutenzione, nella specie effettuata senza carattere di sistematicità; Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne, Rv. 259229).
La responsabilità del costruttore, nell’ipotesi in cui l’evento dannoso sia stato provocato dall’inosservanza delle cautele antinfortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, in altri termini, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro utilizzatore della macchina, giacché questi è obbligato ad eliminare le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti chiamati ad avvalersi della macchina. A tale regola, fondante la concorrente responsabilità del datore di lavoro, si fa eccezione nella sola ipotesi in cui l’accertamento di un elemento di pericolo nella macchina o di un vizio di progettazione o di costruzione di questa sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio, impeditive di apprezzarne la sussistenza con l’ordinaria diligenza, per esempio, allorquando il vizio riguardi una parte non visibile e non raggiungibile della macchina (Sez. 4, n. 1216 del 26/10/2005 dep. 2006, Mollo, Rv. 233174-5).
Coerentemente coi principi sopra ricordati, i giudici del gravame del merito hanno evidenziato che certo l’eventuale colpa del lavoratore non esimeva il datore di lavoro dalla sua responsabilità per colpa specifica, occorrendo la dimostrazione dell’adozione da parte di quest’ultimo di tutte le cautele possibili e di impedire prevedibili comportamenti imprudenti del dipendente.
La Corte territoriale ha logicamente individuato nell’omessa completa riparazione della sega a nastro la causa della lesione; ha poi legittimamente ritenuto indispensabile la sicurezza delle macchine messe a disposizione ed utilizzate dagli operai per evitare infortuni e ha affermato che il datore di lavoro doveva garantire tale conformità e mantenerla nel tempo mediante idonei programmi di manutenzione.
Coerentemente con i principi sopra ricordati, i giudici del gravame del merito evidenziano che la marchiatura CE della sega non può valere ad escludere i suindicati profili di colpa a carico dell’imputata.
Al riguardo della certificazione CE, va ribadito quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità sul punto, ossia che il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza dell’ambiente di lavoro, è tenuto ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati e risponde, pertanto, dell’infortunio occorso ad un dipendente a causa della mancanza ditali requisiti, senza che la presenza sul macchinario della marchiatura di conformità “CE” o l’affidamento riposto nella notorietà e nella competenza tecnica del costruttore valgano ad esonerarli dalla loro responsabilità.
In merito, questa Corte ha anche precisato che la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l’evento dannoso sia stato provocato dall’inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro sul quale grava l’obbligo di eliminare ogni fonte di percolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare la predetta macchina e di adottare tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori e che a detta regola può farsi eccezione nel solo caso in cui l’accertamento di un elemento di pericolo nella macchina o di un vizio di progettazione o di costruzione di questa sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio, impeditive di apprezzarne la sussistenza con l’ordinaria diligenza, il che non era nel caso di specie (Sez. 4, n. 54480 del 10/11/2016, Pucci, non massimata; Sez. 4, n. 26247 del 30/05/2013, Magrini, Rv. 256948).
2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Relativamente alle censure riguardanti il comportamento asseritamente abnorme ed esorbitante del dipendente, la Corte territoriale ha rilevato, con motivazione lineare e coerente, che il lavoratore stava adottando una procedura esecutiva meno sicura, ma resa possibile proprio dalla conformazione della macchina, per cui tale condotta non poteva essere da sola idonea ad interrompere il nesso causale con l’evento verificatosi.
L’assunto del giudice d’appello è corretto e conforme al principio più volte affermato dalla Corte di legittimità in materia di infortuni sul lavoro, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli – e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro – o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, Musso, Rv. 275017; Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222); nello stesso senso, si è affermato che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603).
Pertanto, in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386).
A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di tutela approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Tali disposizioni, infatti, sono dirette a difendere il lavoratore anche da incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 263497).
Orbene, risulta evidente, dai principi richiamati, non è possibile inquadrare nell’ambito delle condotte connotate da abnormità ed esorbitanza, il comportamento tenuto dal lavoratore infortunato, non essendosi realizzato in un ambito avulso dal procedimento lavorativo a cui era stato addetto, come evidenziato in maniera appropriata dalla Corte territoriale.
In ordine alla prevedibilità delle circostanze che hanno determinato l’evento lesivo del lavoratore, i giudici di merito, affermando la non eccentricità e la non imprevedibilità del suo comportamento, hanno evidenziato come l’operazione intrapresa da lui intrapresa costituisse un ordinario intervento di sistemazione della sega.
3. Il terzo motivo di ricorso, con cui si deduce l’ingiustificato diniego della causa di non punibilità dell’art. 131 bis c.p., è fondato.
Va osservato che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di “particolare tenuità del fatto”, la motivazione può risultare anche implicitamente dall’argomentazione con la quale il giudice d’appello abbia considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell’imputato, alla stregua dell’art. 133 c.p., per stabilire la congruità del trattamento sanzionatorio irrogato dal giudice di primo grado (Sez. 5, n. 15658 del 14/12/2018, dep. 2019, D., Rv. 275635). Si è altresì precisato che, ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis c.p., il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p., comma 1, ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone, Rv. 274647).
Tanto premesso, la Corte di merito, nonostante lo specifico motivo di gravame, non ha sviluppato un adeguato apparato argomentativo, essendosi limitata a negare la sussistenza dei parametri di cui all’art. 133 c.p., senza illustrare le ragioni. Tale valutazione, peraltro, è formulata esclusivamente con riferimento al trattamento sanzionatorio.
3.1. Va poi ricordato l’insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594), secondo cui, quando la sentenza impugnata è anteriore alla entrata in vigore del D.Lgs. n. 16 marzo 2015, n. 28, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza rinvio del processo nella sede di merito e se la Corte di cassazione, sulla base del fatto accertato e valutato nella decisione, riconosce la sussistenza della causa di non punibilità, la dichiara d’ufficio, ex art. 129 c.p.p., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, a norma dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. I). È stata quindi riconosciuta la possibilità per la Corte di cassazione di accertare d’ufficio, in presenza di un ricorso ammissibile, la sussistenza della indicata causa di non punibilità nel giudizio di legittimità, con l’adozione dei provvedimenti conseguenti.
La valenza dell’indicato principio non può essere limitata al caso di sentenza impugnata, pronunciata in data anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 28 del 2015 cit.. La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131 bis c.p., nel giudizio di legittimità, può essere rilevata d’ufficio, in presenza di un ricorso ammissibile, anche se non dedotta nel corso del giudizio di appello pendente alla data di entrata in vigore della norma, a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali a tal fine (Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018, dep. 2019, Canella, non massimata sul punto; Sez. 2, n. 49446 del 03/10/2018, Zingari, Rv. 274476; Sez. 1, n. 27752 del 09/05/2017, Menegotti, Rv. 270271).
In particolare, depongono in senso favorevole alla V. i seguenti elementi ricavabili dal contenuto delle sentenze di merito: a) la mancata indicazione di precedenti penali, circostanza da cui è possibile desumere l’incensuratezza dell’imputata; b) l’avvenuto risarcimento del danno; c) la valutazione di non eccessiva entità del fatto tenuto conto della condanna ad una pena solo pecuniaria, in entità estremamente ridotta già con la sentenza di primo grado; d) l’acclarata esclusione della possibilità di qualificare la perdita della falange come indebolimento permanente.
Ne consegue che, a norma dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. I), la sentenza impugnata va annullata senza rinvio per essere il reato non punibile per particolare tenuità del fatto. Resta conseguentemente assorbito il quarto motivo di ricorso.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato non punibile per particolare tenuità del fatto.