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Condannato per autoriciclaggio chi riceve contanti derivanti da false fatture

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 25 ottobre 2019 – 18 febbraio 2020, n. 6397
Presidente Cervadoro – Relatore Borsellino

Ritenuto in fatto

1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Rovigo ha rigettato l’istanza di riesame proposta nell’interesse di Z.P. avverso il decreto emesso dal G.I.P. del Tribunale di Rovigo il 5 aprile 2019, con cui è stato disposto il sequestro preventivo della somma di Euro 86.800.
Nel provvedimento impugnato il tribunale ha condiviso l’affermazione del G.I.P. circa la sussistenza del fumus commissi delicti in relazione al delitto di autoriciclaggio, contestato a Z. in concorso, e ha ritenuto inammissibile l’istanza proposta dal difensore di M.C. al fine di ottenere il dissequestro delle somme depositate sul conto intestato alla Autohouse s.r.l. per mancanza di procura speciale.
2. Avverso il detto provvedimento propongono ricorso per cassazione l’indagato e M.C. , con atto sottoscritto dall’avv. Bettiol, difensore di fiducia di Z. e procuratore speciale della M. , deducendo:
2.1 violazione dell’art. 648 ter 1 c.p., in quanto il reato di autoriciclaggio prevede l’impiego derivante dall’attività illecita in attività economiche finanziarie imprenditoriali o speculativa, ma dalla lettura del decreto di sequestro non emerge la sussistenza di tali attività, poiché la società olandese che si occupa di commercio all’ingrosso di fiori e piante emetteva fatture per operazioni inesistenti, alle quali seguiva un bonifico della società gestita dagli imputati; i soldi venivano poi restituiti in contanti agli imputati stessi e destinati all’evidenza ad uso personale.
Il tribunale ha ritenuto la sussistenza del fumus del delitto di autoriciclaggio in quanto la trasformazione dei profitti delittuosi in denaro contante, attraverso complesse operazioni estere rende più complesso l’accertamento della provenienza dell’utilità pecuniaria, ma così facendo ha affermato che non è necessario impiegare il denaro provento di diritto in attività finanziarie o speculative, ma è sufficiente porre in essere operazioni dirette ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa, erroneamente assimilando il delitto di autoriciclaggio a quello di riciclaggio, mentre secondo la previsione di cui all’art. 648 ter.1 c.p., non basta l’ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa ma occorre un ulteriore elemento, l’impiego la sostituzione e il trasferimento in attività economiche finanziarie imprenditoriali speculative.
2.2 Violazione degli artt. 322 e 324 c.p.p., poiché la ricorrente M.C. aveva chiesto il dissequestro parziale quale socio e amministratore della Autohouse s.r.l. delle somme sequestrate sul conto corrente della Banca di credito agricolo Frivadria, ma il tribunale ha dichiarato inammissibile l’istanza perché proposta in assenza di procura speciale conferita dalla parte, sebbene nè l’art. 322, nè l’art. 324 c.p.p., richiedano procura speciale per proporre istanza di dissequestro.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono inammissibili.
1.1 Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Vero è che in tema di autoriciclaggio, le condotte di impiego, sostituzione o trasferimento dei beni di provenienza delittuosa, compiute dall’autore del reato presupposto, assumono rilevanza penale, ai sensi del nuovo art. 648-ter.1, solo se poste in essere “in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”, e solo se in grado di ostacolare la provenienza delittuosa dei beni stessi: requisito, quest’ultimo, che rispetto al riciclaggio presenta connotazioni rafforzate dall’avverbio “concretamente”.
L’ipotesi di non punibilità di cui all’art. 648-ter.1 c.p., comma 4, è integrata soltanto nel caso in cui l’agente utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. (Sez. 2, n. 13795 del 07/03/2019 – dep. 29/03/2019, PMT C/ SANNA ROBERTO, Rv. 27552802).
Ed infatti una delle prime pronunce di questa Suprema Corte in tema di autoriciclaggio ha escluso la configurabilità del reato nel versamento della somma, costituente profitto di un furto, su conto corrente o su carta di credito prepagata intestati allo stesso autore del reato presupposto, proprio perché tale deposito non può considerarsi, secondo le indicazioni rispettivamente fornite dall’art. 2082 c.c., e dall’art. 106, del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, come attività “economica” o “finanziaria” (oltre a non costituire comunque, a mente dell’art. 648 ter.1 c.p., attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro oggetto di profitto: cfr. Sez. 2, n. 33074 del 14/07/2016, Babuleac,Rv. 267459).
Nel caso in esame, invece, ricorrono tutti i presupposti del delitto di autoriciclaggio poiché il provento della frode fiscale realizzata anche dall’imputato in favore di terzi, attraverso la creazione di società filtro cartiere che si interponevano con operazioni fittizie per consentire l’emissione di false fatture, è stato trasferito attraverso bonifici ad una ditta olandese attiva nel settore della vendita dei fiori, simulando operazioni commerciali, con causali fittizie. Il soggetto olandese ha restituito allo Z. gli importi in contante, così portando a compimento un’operazione che, mediante il trasferimento dei proventi illeciti in attività economiche, è all’evidenza diretta a “ripulire” il denaro in questione.
La circostanza che le operazioni commerciali cui erano destinati i bonifici fossero simulate e non effettive non inficia la gravità indiziaria ed anzi è la conferma del carattere illecito dell’operazione, poiché l’incriminazione di cui all’art. 648 ter.1 c.p., ha lo scopo di impedire qualsiasi forma di reimmissione delle disponibilità di provenienza delittuosa all’interno del circuito economico legale, finanziario ovvero imprenditoriale, al fine di ottenere un concreto effetto dissimulatorio che costituisce quel quid pluris che differenzia la semplice condotta di godimento personale (non punibile) da quella di nascondimento del profitto illecito (e perciò punibile).
2.11 secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Preliminarmente va ribadito che per i soggetti portatori di interessi meramente civilistici deve trovare applicazione la regola posta dall’art. 100 c.p.p., in forza della quale la parte civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, possono stare in giudizio solo con il ministero di un difensore munito di procura speciale (Sez. 6, sent. n. 46429 del 17/9/2009, Pace, Rv. 245440; Sez. 6, sent. n. 11796 del 4/3/2010, Pilato, Rv. 246485; Sez. 6 – sent. n. 13798 del 20/1/2011, Bonura, Rv. 249873). La posizione processuale del terzo interessato è, infatti, nettamente distinta sotto il profilo difensivo da quella dell’indagato e dell’imputato che, in quanto assoggettati all’azione penale, possono stare in giudizio di persona, avendo solo necessità di munirsi di un difensore che, oltre ad assisterli, li rappresenta ex lege ed è titolare di un diritto di impugnazione nell’interesse del proprio assistito per il solo fatto di rivestire la qualità di difensore, senza alcuna necessità di procura speciale, che è imposta solo per i casi di atti cd. “personalissimi”. Non così per il terzo interessato, perché questi, al pari dei soggetti indicati dall’art. 100 c.p.p., è portatore di interessi civilistici, per cui, oltre a non poter stare personalmente in giudizio, ha un onere di patrocinio, che è soddisfatto attraverso il conferimento di procura alle liti al difensore, come del resto avviene nel processo civile ai sensi dell’art. 183 c.p.c..
In applicazione dell’enunciato principio, la giurisprudenza di questa Corte, secondo il condivisibile orientamento di gran lunga prevalente, ha statuito che è inammissibile l’istanza di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo proposta dal difensore del terzo interessato privo di procura speciale ((Sez. 1, n. 8361 del 10/01/2014 – dep. 21/02/2014, Russo, Rv. 25917401; Sez. 2, sent. n. 31044 del 13/6/2013, Scaglione, Rv. 256839; Sez. 3, sent. n. 23107 del 23/4/2013, Stan, Rv. 255445; vedi, anche, massime precedenti conformi n. 21314 del 2010 Rv. 247440, n. 8942 del 2012 Rv. 252438, n. 10972 del 2013 Rv. 255186).
6. Alla inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che si ritiene equa, di Euro duemila a favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno a favore della Cassa delle Ammende.

 

 

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